Nel 1950, a Bühlerhöhe, nel Baden-Württemberg, Heidegger tenne un’ormai celebre conferenza, in memoria di Max Kommerell – storico e scrittore svevo già appartenente al circolo letterario di Stefan George e anch’egli studioso di Hölderlin –, dal titolo Die Sprache (Il Linguaggio), pubblica riflessione poi raccolta nell’antologia Unterwegs zur Sprache (In cammino verso il linguaggio), edita nel 1959. La discussione (Erörtern), che aveva per scopo l’accennare a una possibile localizzazione (Ortung) dell’essenza del linguaggio, ci offre pagine su cui davvero esercitare il pensiero che ram-memora (An-denken) e custodisce tanto ri-unendo (Léghein) quanto di-mostrando (Apophàinesthai) o dis-piegando ciò che di-vergendo si dis-volge facendosi innanzi, giacché dis-chiude privilegiato adito alla soglia del Negativo, alla di esso antecedenza fondativa e al modo autentico o apofatico del suo darsi ovvero del proprio pro-porsi. Parlando del linguaggio o, piuttosto, ascoltandolo, egualmente ponendoci in cammino verso il suo dire aurorale, l’Altro, il Meontico, il Destino (Ge-schick), si farà e-vento, presenza, essere, suono e parola, soglia e dolore ossia, in unità, Storia (Ge-schichte).
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Solo e-venendo a dimora presso il Ni-ente-dell’ente – tanto originario quanto, estremo, trascendentalmente il tutto-dell’ente-sopraggiungente pre-avvolgente e sempre nella propria principiale escatia o Discostamento inseitale –, cose e mondo, enti ed Essere-degli-enti, nella loro co-implicazione necessaria, possono essere, solo dimorando nel Lontano possono farsi presenti […]. Perché, al contrario, cose e mondo non possono essere intese come già e da sempre dimoranti presso la Remotezza ( = il Ni-ente) per semplicemente passare (Ubergang, Epamphoterizein) al Vicino ( = l’Essere presente) nel tempo dell’e-vocazione della chiamata che nomina? Poiché dimorare presso il Ni-ente-della-dimorabilità significa non essere affatto alcunché, poiché, così pensato, il passaggio dal Nulla all’Essere (dal Remoto al Vicino, dalla Potenza all’Atto, dall’Assenza alla Presenza) pre-suppone il già esser-ci del transitante, il suo già essere ovvero qualcosa, ebbene il già essere questi una determinatezza (haecceitas), un’identità, (o, con Heidegger, il suo già essere appropriato [Eignen] a sé), un’individualità semplicemente abbisognante della proprietà della sostanza, dell’atto, della vicinanza, della presenza. No, la chiamata conferisce fondamento, atto, prossimità e presenza, e alle cose del mondo e al mondo che contiene le cose solo poiché e solo fintantoché le conduce e pertiene presso l’essere-del-Niente, la vicinanza del Remoto, l’attualità del Possibile, la presenza dell’Assenza, e non dal Nulla assoluto all’Essere-dell’ente. Ciò che, nonpertanto, occorre ora portare alla preclarità della dimostrazione è che cosa significhi essere-presso-il-Ni-ente, essere-presente-nella-Lontananza o, parimenti, quale co-implicazione immorsi il Ni-ente-assoluto, l’essere-del-Ni-ente e l’Essere-degli-enti-in-totalità.
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Questo essere come l’Altro da tutto e dal Tutto compatto stesso deuteriore (Émpleón [estin] Eóntos, Én, Synechés, Á-pauston, A-kínēton, An-ólethron) noi lo chiamiamo l’essere-della-Dif-ferenza, l’esserci ossia come il Non-essere-ente-alcuno, neppure come l’Essere-dell’ente-in-totalità (Pãn [estin] Omoĩon, Ólon); quest’Enadità-in-se-stessa-Divisa (Én-Dia-Phéron-Eautõ) o contro-se-stessa immanentemente rivolta (Én-Stasiázon-Pròs-Eautò), questa Relazione immediata altresì o Mediazione assoluta tra essere-del-Nulla-e-Nulla, noi l’appelliamo Soglia, Limes, Diá-crisis, Partizione originaria (Ur-teilung), ΔΙΆ.
«La Dif-ferenza, di cui si parla, esiste solo come quest’una. È unica. La Dif-ferenza regge – non però con essa identificandosi – quella linea mediana, nel moto e nella relazione alla quale e grazie alla quale mondo e cose trovano la loro unità […]. La Dif-ferenza porta il mondo al suo essere mondo, porta le cose al loro essere cose. Portandoli a compimento, li porta uno verso l’altro. La composizione operata dalla Dif-ferenza non è qualcosa che avvenga in un secondo momento, quasi la Dif-ferenza sopraggiungesse recando una linea mediana e con questa congiungesse mondo e cose. La Dif-ferenza, in quanto linea mediana, media il realizzarsi del mondo e delle cose nella loro propria essenza, cioè stabilisce il loro essere l’uno per l’altro, di questo fondando e compiendo l’unità.»
La Dif-ferenza fa essere – e le cose del mondo, e il mondo delle cose – giacché porta a compimento, ossia compone i differenti portandoli uno-verso-l’altro: far essere significa dunque distinguere, ovvero conferire quell’identità contraddistintiva esclusivamente in grazia della quale ogni cosa può essere ed essere sé se e solo fintantoché non è l’unità-del-non-sé, la propria alterità egualmente o contraddittorietà (contro-)coalita o (enantio-)adunata esattamente dalla posizione dell’identità distintiva o unitaria del sé, dell’ecceità sua. La Dif-ferenza assoluta (Pólemos) è l’Unità originaria del mondo e delle cose del mondo, ossia è l’autentico fondamento comune (Hypo-keiménon) tanto del molteplice – ulteriore –, quanto del Tutto-del-molteplice – deuteriore.
«Là risplende in pura luce
Sopra la tavola pane e vino.
Dove splende la pura luce? Sulla soglia, nel dolore che fonda e compone. È la cesura della Dif-ferenza che fa risplendere la pura luce. Il suo congiungere illuminante de-cide quel rischiararsi del mondo, per il quale il mondo si fa mondo. La cesura della Dif-ferenza porta il mondo a quel realizzamento della sua essenza di mondo, che consente le cose. Schiarandosi così il mondo e giungendo esso al suo aureo splendore, anche pane e vino pervengono al loro splendore.»
Il mondo si rischiara, consentendo alle cose del mondo, pane e vino, di apparire, alla luce del mondo stesso, nella loro luce, ma la luce del mondo non è il chiarore originario, la “pura luce”. Essa è fatta risplendere dalla Dif-ferenza, la Notte-di-ogni-bagliore. Gli essenti hanno fondamento nell’Essere, ma l’Essere (degli essenti) non è l’Originario, bensì riceve esso stesso fondamento dall’essere-del-Ni-ente, nell’essere-del-Ni-ente prendendo sopraggiunta dimora, contro-conseguita localizzazione ossia deutero-dedotta dall’immediata auto-entificazione rifrattiva dell’Originario in-sé Ni-entità, Dolore, Dif-ferenza, Soglia, Fram-mezzo (Zwischen, ΔΙΆ), Contraddizione, Alterità.
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La Quiete, in sé, null’altro è se non il Ni-ente, e il Suono della Quiete, il Linguaggio, null’altro è se non l’essere-del-Ni-ente. Ogni umano dire, ovverosia ogni ente storico, noetico quanto dianoetico, non può che dunque risuonare entro questa Dia-lacerazione (Hiatus) originaria che tutto avvolge e fonda.
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Certo, l’uomo, per Heidegger, come è noto almeno a partire dalla Lettera sull’Umanismo del 1947, “non è il padrone dell’ente”, e l’Essere-dell’ente non è nella piena disponibilità utilizzante dell’uomo come lo è qualsivoglia semplice presenza: “il suono della quiete non è nulla di umano”, pertanto. Ma neppure l’uomo – l’Esserci, ovvero quell’ente che è quest’esistenza sempre nostra – è, in essenza, una semplice presenza utilizzabile (Mensch ist das transcendens schlechthin), giacché è pur egli “il pastore dell’Essere” – ossia, come già a quest’altezza sappiamo, dell’Essere barrato –, colui epperò a cui l’Essere (barrato) stesso – o, piuttosto, il Niente-dell’ente – demanda e affida la salvaguardia e la custodia della propria Verità, dunque la totalità del proprio gregge (tà ónta, tà pánta), dispiegantesi per ordinamento d’ecceità nel Tempo proprio dell’Essere, ovvero, ancora, nell’orizzonte trascendentale, cioè a dire storico, di impressione del carattere dell’Essere all’essere-del-Niente per successione elenctica del tutto dell’affermazione o entelechia di suono e segno, pietra e presenza. Ecco dunque che tra Uomo ed Essere, tra Uomo e Linguaggio quale luogo (das Haus) della storicizzazione dell’Essere (die Sprache ist das Haus des Seins), si instaura – e da principio –, come qui in esordio indicato, bicondizionalità: l’uomo, consentaneamente con quanto posto da Aristotele e Humboldt, è essenzialmente ente di pensiero e parola, ma è tale giacché e solo poiché (e fintantoché) con-risponde a un parlare più originario del proprio, ossia al parlare del Linguaggio stesso. Solo in quanto gettato nella disponibilità originaria dell’Essere, di questo Essere (barrato), all’uomo possono venire incontro gli enti (utilizzabili e intra-mondani). Nondimeno, questo stesso Linguaggio, la sua essenza, ossia il Suono-della-Quiete (l’essere-del-Non-Essere) “si avvale” dell’uomo per “essere percepito”, per di-venire condotto a completa destinazione, a estremo adempimento.
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Il compito (die Aufgabe) dell’uomo pertanto, per Heidegger, in definitiva, consiste nell’insistere presso l’ascolto della chiamata, dimorando nel dominio del parlare del Linguaggio, ossia, egualmente, nel persistere presso il pensiero del Ni-ente-dell’ente […]. Ciò che rimane purtuttavia sullo sfondo nel discorso heideggeriano (sul Linguaggio come sull’Essere), è precisamente il fondamento di necessità di quell’avvalersi dell’uomo, di cui il Linguaggio ha esigenza, per essere percepito, egualmente per essere, ossia, ancora comportandoci nella co-implicazione di esistenza umana (Dasein) ed Essere, il ruolo che l’Uomo ha nella Seinsgeschichte. In questa prolusione al Ni-ente autentico heideggeriano, preferiamo lasciare che sia il discorso del pensatore svevo a emergere, trattenendo il nostro sullo sfondo. Ci limiteremo, nonpertanto, in clausola, ad accennare, a mo’ di epiclesi, quanto segue: se l’Essere è autenticamente concepito come essere-del-Ni-ente, tale Ni-ente, per esserci, ossia per farsi evento, suono, pieta, dimora, deve necessariamente attraversare tutta la vicenda del proprio Dolore, tutta la teoria della propria Dia-lacerazione particolarizzantesi, deve ovvero realizzare e concretare, attuare ed entificare, la Storia completa della propria contraddittorietà o negazione (dunque, e immediatamente, della propria attualità e medesimezza, positività e coerenza, forma e identità, affermazione e posizione, pienezza e presenza, egualmente inquadrando sotto differenti enantio-categorie il medesimo Originario), disvolgendo integralmente la successione o l’ordinamento del suono della Quiete. L’uomo, pertanto, è l’agente del Dolore, il suo pastore (der Hirt), si magis placet: ogni sua azione, ogni suo pensiero, ogni sua parola, e anzitutto ogni sua parola poetica, ossia creatrice, incide la Quiete, egualmente imprime concretezza allo stare o al consistere in principio prolettico o formale del Negativo, così consentendogli in ultimo di essere-Non-essere compiutamente o in pienezza d’essere (Entelécheia). Ma questo Non-essere, originario ed estremo, quindi ognora eccedente e perpetuamente aprioristico, è l’a-bisso stesso dell’Uomo, di cui egli – e solo egli – è il padrone (der Herr), e l’essere-del-Non-essere è la sua stessa – e solo sua – Storia, l’Orizzonte del solo e sempre proprio E-vento trascendentale e terribile (Tremendum), inaudito (Deinós) e totalmente altro (ganz Anderes), maliardo (Fascinans) e meraviglioso (Thaumásios). Con-stituisce, infatti, in ultimo, e viepiù determina (Bestimmung) o conduce a destinazione il Destino stesso dell’Uomo (*Klèwos *Ndhgwitom, Geviert, Ólympos Éschatos, Kléos Ouranòn ikánei, Héros-Theós), l’affidare e da principio l’Uomo – categoriale (Olympikoí, Göttern, Athánatoi) – all’uomo – individuale (Chthónioi, Sterblichen, Thetoí).