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Filosofica del 900
Rivoluzione
Conservatrice

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Rivoluzione
Conservatrice
Ernst Jünger
Martin Heidegger


Oltre la linea
1950 / 1955

Edizione originale: Über die Linie
Edizione italiana: Adelphi, Milano 2010
In, Alberto Iannelli, Dieci saggi sulla Rivoluzione Conservatrice, Orizzonte Altro Edizioni, 2023
Testo originale
► ► ►
Nel 1950, per l’occasione del 60esimo compleanno di Martin Heidegger, Ernst Jünger pubblicò il saggio Über die Linie, rivolgendo al filosofo svevo l’interrogazione circa un possibile passaggio-oltre la linea del nichilismo, cioè del tempo in cui di ogni ente non è che ni-ente. Cinque anni dopo, Heidegger risponderà all’esortazione che domandava di un superamento in grado di “portare una nuova dedizione dell’essere” e consentisse “a ciò che realmente è di risplendere”, ridefinendo nondimeno l’ambito della questione, l’orizzonte ovvero entro cui la “meditazione sull’essenza del nichilismo” avrebbe dovuto trovare localizzazione (Erörtetung). Il ribaltamento prospettico de La questione dell’Essere coinvolgerà pertanto la stessa possibilità che il portarsi oltre (hinüber, trans, metá), altro in verità non sia se non un persistere presso (perí, de) la linea.

Ernst Jünger: Über die Linie

Per quanto, dunque, nel nichilismo manchi “un pensiero supremo che metta ordine”, esso non coincide con il Caos primigenio, anzi, conformemente alla Weltanschauung jüngeriana, il nichilismo moderno si fa struttura e cosmo nel “sistema-fabbrica”, nel grande apparato burocratico dove dell’indomabile spirito dell’uomo non ne è più niente. La Gestell in cui domina (Herrschaft) l’Arbeiter quale inedita Gestalt neoplatonica, incarna dunque l’espressione massima novecentesca del Tempo del Nulla. Qui, solamente la “terra selvaggia e primordiale”, può concedere all’Eroe-anarca (Waldgänger), l’ultima occasione di riscatto e “ribellione” (der Waldgang) dall’automatismo della tecnica e dalla massificazione omologante, ebbene l’estrema possibilità di oltrepassamento del nichilismo stesso, poiché, per Jünger, prima ancora di farsi evento storico, la questione del Niente dimora, elettivamente e da principio, nel cuore dell’Uomo.

[…]

Il nichilismo compiuto o, piuttosto, in accordo al nostro dire, il Tempo del niente inautentico, è esattamente il segmento della Seinsgeschichte in cui della complessità dell’Essere già dimostratosi – egual–mente delle intricate e delle molteplici tendenze del mondo di cui scrive Jünger – non ne deve essere più niente. Infatti, la meravigliosa ovvero la thaumatica molteplicità degli enti esdotti a manifestazione sinolare, die Welt quindi, l’orizzonte che ci avvolge con tutto ciò che è e che è stato, altro non è che il dispiegamento discreto e discorde, dunque precisamente diurno, dell’essere-del-Niente originario (= l’Essere a punto), l’élenchos o l’impressione di completa incontraddittorietà, per teoria o processione catafatica della distintività ecceitale, all’affermazione archea ossia autoctica della Contraddittorietà categoriale o Negazione assoluta. Coerentemente, la progressiva riduzione del complesso di ciò che già è allo zero dell’indistinto, viene percepita e qui descritta dallo scrittore di Heidelberg come il “sintomo” più tipico della sua epoca, giacché l’unificazione della differenza eidetica è ottenuta per riconvergenza verso l’indeterminatezza e la neutralità della Chōra. La civiltà faustiana, invero, vive in sé l’Eterno dominante nell’Era deuteriore come dovere di nientificare l’essere che si dispone, ostativo (Anstoß), di fronte alla volontà della sua anima sitibonda d’aoristia, l’essere che le si para innanzi ossia, precisamente, l’insieme della differenza già determinatasi che ne limita il dispiegarsi assoluto. La civilizzazione manchesteriana – i cui prodromi, rispetto al nostro attuale e più patente adempimento ulteriore, attraversarono già Jünger e Heidegger nel tempo di questo loro dialogo –, rappresenta, in verità, tanto l’intensificazione dell’impeto distruttivo-riduzionistico, quanto l’ottenebramento della causa finale dello stesso impulso emancipativo infinito (unendliches Streben), che pertanto diviene via via inerziale, sterile, artificiale, autòmato, cieco ma non per questo meno veemente, tutt’al contrario.

L’acutezza jüngeriana, qui senz’altro da celebrarsi, consiste esattamente nell’aver colto il comune fondamento delle differenti direttrici lungo le quali procede e si compie il riduzionismo nichilistico novecentesco: il mondo molteplice si accomuna e le divergenze convergono nell’Uno-senza-distinzioni; il meraviglioso, ossia lo stupore al cospetto del trascendentale, dell’eccezionale, scompare, e con esso ciò di cui era fondamento e fomite: il Sacro e la Sapienza; mentre l’unica meraviglia (Θαύμας) ormai possibile è rappresentata dalla Tecnica, sempre più intesa quale misurazione e riduzione di tutto il reale nell’esattezza del calcolo.

Martin Heidegger: Zur Seinsfrage

Questo dunque il punto cruciale, tanto dell’analisi heideggeriana quanto del Destino dell’Esserci: il nichilismo rintracciato da Nietzsche e Dostoevskij nel secondo ‘800 e da noi ancora attraversato, non è, infatti, il Tempo del Niente, bensì, e tutt’al contrario, è il Tempo in cui del Niente – autenticamente inteso come “da sempre affine all’Essere” – non ne è pressoché più niente, poiché più niente qui ne deve essere (Sollen) di ogni ente già distinto ebbene dispiegato precisamente lungo l’accadere apofatico di questo Non-essere originario ovvero originariamente coimmorsato all’Essere. Il nichilismo, pertanto, tornando al dire di Heidegger, dimostra piuttosto il compimento della Metafisica, ossia dell’Era, per noi la Deuteriore, in cui l’Esserci comprendere l’Essere – giacché così questi gli si dona dunque rivolge – quale Ens primum o Super-ente, pienezza ontica sempre salva posta a fondamento dell’ente molteplice, che vi compartecipa per essere qualcosa e non niente, absolute Geist per Hegel e Volontà di Volontà nel compimento nietzschiano magistralmente riletto dal medesimo Heidegger nel volume che ne riunisce i corsi universitari, sul pensatore di Röcken, della decade 1936-1946.

Per questa ragione, oltrepassare la linea del nichilismo non comporterebbe certo (né comporterà) l’andare oltre la co-originarietà ovvero la trascendentalità del Niente, la di esso “inascondibilità”. Al contrario, è solo attraverso un portarsi presso (de, perí, circum) la sua essenza “da sempre affine all’Essere” che diviene possibile il superamento del nichilismo stesso, ebbene del segmento della Storia del Destino in cui declina ovvero s’innalza al compimento l’Era dell’Essere, ove predomina l’apparire abbagliante e tutto-avvolgente del “niente nullo” cioè inautentico. Inoltrarsi conradianamente verso il cuore via via più profondo del Niente per sormontare ciò che appare, allo stesso Jünger, come la contrada del Nulla: questo il rovesciamento ottico che il genio di Heidegger ci esorta a pensare, anzitutto rammemorando (An-denken) la Differenza (ΔΙΆ, Zwischen), originaria, tra il Niente e l’essere-del-Niente, ebbene la diavergenza, conseguente o seconda, tra l’essere-del-Niente (= l’Essere) e l’Essere-dell’ente.

[…]

Se l’Esserci appartiene al Niente, se l’Esserci, altresì, è la zona ovvero la linea tra Essere-presente ed Essere, e se il nichilismo – comunemente pensato – è il Tempo in cui tutto diviene Niente, non è possibile per l’Esserci medesimo, l’über die linie, in quanto ciò comporterebbe un trascendimento di ciò che l’Esserci stesso, in essenza, da sempre è. Seguiamo dunque il sentiero heideggeriano attorno alla linea, lasciando interrotte e sullo sfondo le capitali interrogazione in precedenza poste circa il destino storico dell’Essere e la relazione tra questi (l’Essere), il suo essere-presente in quanto An-wesen, e l’Esserci, a cui l’An-wesen stesso si dedica, inteso quale memoria dell’Essere.

[…]

Distoglimento e dedizione, velatezza e svelatezza, dimenticanza e rammemorazione, assenza e presenza: ogni endiadi heideggeriana dice dell’essenza dell’Essere dell’ente quale co-appartenenza di Niente (l’Essere) ed Essere (l’Essere-presente). Ora, tornando al topos della pubblica interlocuzione qui in analisi, nell’orizzonte nichilistico, dunque nel Tempo in cui predominano distoglimento e dimenticanza, e la stessa velatezza, essenziale ossia destinale, si vela (l’oblio del nascondimento [Λήθη λήθης]), compito dell’Esserci che intende oltrepassare la linea del nichilismo medesimo – ebbene, ribadiamo, non già la zona del Niente, in cui lo stesso Esserci da sempre è ri-tenuto –, diviene precisamente disvelare il velamento della Velatezza, pensare la dimenticanza della Dimenticanza, cioè a dire rammemorare la Dimenticanza stessa, il suo essere quale inoltrepassabile (“imperituro”) fondamento della Disvelatezza, quindi dell’Essere-presente (di ogni ente che “di volta in volta” appare).

[…]

Il nulla quale cifra del nostro Tempo, per Heidegger, dunque, non è null’altro che la nullificazione della Velatezza, ebbene, ulteriormente, la nullificazione del Niente co-appartenente all’Essere, ove tale nullificazione va intesa sempre sul piano storico e non destinale, stratificazione comportandosi presso la quale la Velatezza, essendo l’imperituro – ovvero, del pari, il trascendentale – velarsi che concede fondamento alla Svelatezza, dunque alla svelatezza dell’ente, è, al contempo, l’inannullabile. Finché c’è qualcosa, finché qualcosa appare nella non-velatezza, la Velatezza è, e non può non essere, cioè a dire non può essere annullata dall’Esserci; è nel livello storico, quindi, che si fa evento l’annullamento – massimo – della Dimenticanza, la velatura – estrema – della Velatezza, ed è precisamente questo a rappresentare l’essenza del nichilismo otto-novecentesco per il filosofo svevo, da lui inteso quale culmine e compimento di tutta l’epoca della Metafisica, cioè di quel modo di comprensione o disvelamento dell’Essere che lo coglie esclusivamente in quanto essere-presente e non già in quanto non-velato (Α-λήθεια): se, infatti, pensiamo la presenza che ci si para innanzi nella propria in-ascosità quale non-velatezza, immediatamente la velatezza medesima, l’a–scosità, trans-appare attraverso la predicazione negativa. Il celebre oblio dell’Essere heideggeriano, invero, è proprio l’abbandono leteo di questo “non” che concede agli enti – fondamento infondato – di dimorare presso il dis-chiuso.

Pertanto, rammemorare la Velatezza (del pari il Distoglimento, l’Assenza o, in uno, l’Essere), ebbene già rammemorarne la di essa co-originaria appartenenza all’Essere-presente quale suo fondamento trascendentale, significa, immediatamente, entificare la nullificazione, storica come precisato, del Niente, disvelare la velatura della Velatezza, dis-allontanare l’allontanamento della Lontananza, cioè, ancora riunendo in sintesi le molte e le sempre molto suggestive “dramatis personae” heideggeriane del Niente, oltrepassare la linea del nichilismo.

[…]

Ebbene, precisamente questo Ni-ente – cioè, ancora, non già il nulla “negativo”, bensì la Ni-entità che “prende” haecceitas, determinatezza altresì, ovvero, bicondizionalmente, essere, quindi datità e presenza, attraverso la “donazione”, temporalmente articolata (Geschehen), dell’assolutamente altro da sé che si particolarizza via via facendosi “sostanza” e forma – determina la localizzazione dell’es–senza dell’umano quale “luogo-tenente” della Storia del Ni-ente, cioè, in accordo al nostro dire, di questa teoria trascendentale della di esso completa contraddittorietà (élenchos) che, dispiegandosi secondo la discretudine del prima e del poi, imprime escate incontraddittorietà all’originario suo affermarsi anticipazionale. La sinolarità di forma-e-sostanza presa da principio dalla Ni-entità immediatamente sottraentesi a ogni disposizione sinolare, è, precisamente, l’orizzonte originario-estremo di accadimento della Seinsgeschichte.
© Orizzonte
Altro

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Ernst Jünger
Martin Heidegger

Oltre la linea
1950 / 1955

Edizione originale: Über die Linie
Edizione italiana: Adelphi, Milano 2010
In, Alberto Iannelli, Dieci saggi sulla Rivoluzione Conservatrice, Orizzonte Altro Edizioni, 2023
Testo originale ► ► ►

Nel 1950, per l’occasione del 60esimo compleanno di Martin Heidegger, Ernst Jünger pubblicò il saggio Über die Linie, rivolgendo al filosofo svevo l’interrogazione circa un possibile passaggio-oltre la linea del nichilismo, cioè del tempo in cui di ogni ente non è che ni-ente. Cinque anni dopo, Heidegger risponderà all’esortazione che domandava di un superamento in grado di “portare una nuova dedizione dell’essere” e consentisse “a ciò che realmente è di risplendere”, ridefinendo nondimeno l’ambito della questione, l’orizzonte ovvero entro cui la “meditazione sull’essenza del nichilismo” avrebbe dovuto trovare localizzazione (Erörtetung). Il ribaltamento prospettico de La questione dell’Essere coinvolgerà pertanto la stessa possibilità che il portarsi oltre (hinüber, trans, metá), altro in verità non sia se non un persistere presso (perí, de) la linea.

Ernst Jünger: Über die Linie

Per quanto, dunque, nel nichilismo manchi “un pensiero supremo che metta ordine”, esso non coincide con il Caos primigenio, anzi, conformemente alla Weltanschauung jüngeriana, il nichilismo moderno si fa struttura e cosmo nel “sistema-fabbrica”, nel grande apparato burocratico dove dell’indomabile spirito dell’uomo non ne è più niente. La Gestell in cui domina (Herrschaft) l’Arbeiter quale inedita Gestalt neoplatonica, incarna dunque l’espressione massima novecentesca del Tempo del Nulla. Qui, solamente la “terra selvaggia e primordiale”, può concedere all’Eroe-anarca (Waldgänger), l’ultima occasione di riscatto e “ribellione” (der Waldgang) dall’automatismo della tecnica e dalla massificazione omologante, ebbene l’estrema possibilità di oltrepassamento del nichilismo stesso, poiché, per Jünger, prima ancora di farsi evento storico, la questione del Niente dimora, elettivamente e da principio, nel cuore dell’Uomo.

[…]

Il nichilismo compiuto o, piuttosto, in accordo al nostro dire, il Tempo del niente inautentico, è esattamente il segmento della Seinsgeschichte in cui della complessità dell’Essere già dimostratosi – egual–mente delle intricate e delle molteplici tendenze del mondo di cui scrive Jünger – non ne deve essere più niente. Infatti, la meravigliosa ovvero la thaumatica molteplicità degli enti esdotti a manifestazione sinolare, die Welt quindi, l’orizzonte che ci avvolge con tutto ciò che è e che è stato, altro non è che il dispiegamento discreto e discorde, dunque precisamente diurno, dell’essere-del-Niente originario (= l’Essere a punto), l’élenchos o l’impressione di completa incontraddittorietà, per teoria o processione catafatica della distintività ecceitale, all’affermazione archea ossia autoctica della Contraddittorietà categoriale o Negazione assoluta. Coerentemente, la progressiva riduzione del complesso di ciò che già è allo zero dell’indistinto, viene percepita e qui descritta dallo scrittore di Heidelberg come il “sintomo” più tipico della sua epoca, giacché l’unificazione della differenza eidetica è ottenuta per riconvergenza verso l’indeterminatezza e la neutralità della Chōra. La civiltà faustiana, invero, vive in sé l’Eterno dominante nell’Era deuteriore come dovere di nientificare l’essere che si dispone, ostativo (Anstoß), di fronte alla volontà della sua anima sitibonda d’aoristia, l’essere che le si para innanzi ossia, precisamente, l’insieme della differenza già determinatasi che ne limita il dispiegarsi assoluto. La civilizzazione manchesteriana – i cui prodromi, rispetto al nostro attuale e più patente adempimento ulteriore, attraversarono già Jünger e Heidegger nel tempo di questo loro dialogo –, rappresenta, in verità, tanto l’intensificazione dell’impeto distruttivo-riduzionistico, quanto l’ottenebramento della causa finale dello stesso impulso emancipativo infinito (unendliches Streben), che pertanto diviene via via inerziale, sterile, artificiale, autòmato, cieco ma non per questo meno veemente, tutt’al contrario.

L’acutezza jüngeriana, qui senz’altro da celebrarsi, consiste esattamente nell’aver colto il comune fondamento delle differenti direttrici lungo le quali procede e si compie il riduzionismo nichilistico novecentesco: il mondo molteplice si accomuna e le divergenze convergono nell’Uno-senza-distinzioni; il meraviglioso, ossia lo stupore al cospetto del trascendentale, dell’eccezionale, scompare, e con esso ciò di cui era fondamento e fomite: il Sacro e la Sapienza; mentre l’unica meraviglia (Θαύμας) ormai possibile è rappresentata dalla Tecnica, sempre più intesa quale misurazione e riduzione di tutto il reale nell’esattezza del calcolo.

Martin Heidegger: Zur Seinsfrage

Questo dunque il punto cruciale, tanto dell’analisi heideggeriana quanto del Destino dell’Esserci: il nichilismo rintracciato da Nietzsche e Dostoevskij nel secondo ‘800 e da noi ancora attraversato, non è, infatti, il Tempo del Niente, bensì, e tutt’al contrario, è il Tempo in cui del Niente – autenticamente inteso come “da sempre affine all’Essere” – non ne è pressoché più niente, poiché più niente qui ne deve essere (Sollen) di ogni ente già distinto ebbene dispiegato precisamente lungo l’accadere apofatico di questo Non-essere originario ovvero originariamente coimmorsato all’Essere. Il nichilismo, pertanto, tornando al dire di Heidegger, dimostra piuttosto il compimento della Metafisica, ossia dell’Era, per noi la Deuteriore, in cui l’Esserci comprendere l’Essere – giacché così questi gli si dona dunque rivolge – quale Ens primum o Super-ente, pienezza ontica sempre salva posta a fondamento dell’ente molteplice, che vi compartecipa per essere qualcosa e non niente, absolute Geist per Hegel e Volontà di Volontà nel compimento nietzschiano magistralmente riletto dal medesimo Heidegger nel volume che ne riunisce i corsi universitari, sul pensatore di Röcken, della decade 1936-1946.

Per questa ragione, oltrepassare la linea del nichilismo non comporterebbe certo (né comporterà) l’andare oltre la co-originarietà ovvero la trascendentalità del Niente, la di esso “inascondibilità”. Al contrario, è solo attraverso un portarsi presso (de, perí, circum) la sua essenza “da sempre affine all’Essere” che diviene possibile il superamento del nichilismo stesso, ebbene del segmento della Storia del Destino in cui declina ovvero s’innalza al compimento l’Era dell’Essere, ove predomina l’apparire abbagliante e tutto-avvolgente del “niente nullo” cioè inautentico. Inoltrarsi conradianamente verso il cuore via via più profondo del Niente per sormontare ciò che appare, allo stesso Jünger, come la contrada del Nulla: questo il rovesciamento ottico che il genio di Heidegger ci esorta a pensare, anzitutto rammemorando (An-denken) la Differenza (ΔΙΆ, Zwischen), originaria, tra il Niente e l’essere-del-Niente, ebbene la diavergenza, conseguente o seconda, tra l’essere-del-Niente (= l’Essere) e l’Essere-dell’ente.

[…]

Se l’Esserci appartiene al Niente, se l’Esserci, altresì, è la zona ovvero la linea tra Essere-presente ed Essere, e se il nichilismo – comunemente pensato – è il Tempo in cui tutto diviene Niente, non è possibile per l’Esserci medesimo, l’über die linie, in quanto ciò comporterebbe un trascendimento di ciò che l’Esserci stesso, in essenza, da sempre è. Seguiamo dunque il sentiero heideggeriano attorno alla linea, lasciando interrotte e sullo sfondo le capitali interrogazione in precedenza poste circa il destino storico dell’Essere e la relazione tra questi (l’Essere), il suo essere-presente in quanto An-wesen, e l’Esserci, a cui l’An-wesen stesso si dedica, inteso quale memoria dell’Essere.

[…]

Distoglimento e dedizione, velatezza e svelatezza, dimenticanza e rammemorazione, assenza e presenza: ogni endiadi heideggeriana dice dell’essenza dell’Essere dell’ente quale co-appartenenza di Niente (l’Essere) ed Essere (l’Essere-presente). Ora, tornando al topos della pubblica interlocuzione qui in analisi, nell’orizzonte nichilistico, dunque nel Tempo in cui predominano distoglimento e dimenticanza, e la stessa velatezza, essenziale ossia destinale, si vela (l’oblio del nascondimento [Λήθη λήθης]), compito dell’Esserci che intende oltrepassare la linea del nichilismo medesimo – ebbene, ribadiamo, non già la zona del Niente, in cui lo stesso Esserci da sempre è ri-tenuto –, diviene precisamente disvelare il velamento della Velatezza, pensare la dimenticanza della Dimenticanza, cioè a dire rammemorare la Dimenticanza stessa, il suo essere quale inoltrepassabile (“imperituro”) fondamento della Disvelatezza, quindi dell’Essere-presente (di ogni ente che “di volta in volta” appare).

[…]

Il nulla quale cifra del nostro Tempo, per Heidegger, dunque, non è null’altro che la nullificazione della Velatezza, ebbene, ulteriormente, la nullificazione del Niente co-appartenente all’Essere, ove tale nullificazione va intesa sempre sul piano storico e non destinale, stratificazione comportandosi presso la quale la Velatezza, essendo l’imperituro – ovvero, del pari, il trascendentale – velarsi che concede fondamento alla Svelatezza, dunque alla svelatezza dell’ente, è, al contempo, l’inannullabile. Finché c’è qualcosa, finché qualcosa appare nella non-velatezza, la Velatezza è, e non può non essere, cioè a dire non può essere annullata dall’Esserci; è nel livello storico, quindi, che si fa evento l’annullamento – massimo – della Dimenticanza, la velatura – estrema – della Velatezza, ed è precisamente questo a rappresentare l’essenza del nichilismo otto-novecentesco per il filosofo svevo, da lui inteso quale culmine e compimento di tutta l’epoca della Metafisica, cioè di quel modo di comprensione o disvelamento dell’Essere che lo coglie esclusivamente in quanto essere-presente e non già in quanto non-velato (Α-λήθεια): se, infatti, pensiamo la presenza che ci si para innanzi nella propria in-ascosità quale non-velatezza, immediatamente la velatezza medesima, l’a–scosità, trans-appare attraverso la predicazione negativa. Il celebre oblio dell’Essere heideggeriano, invero, è proprio l’abbandono leteo di questo “non” che concede agli enti – fondamento infondato – di dimorare presso il dis-chiuso.

Pertanto, rammemorare la Velatezza (del pari il Distoglimento, l’Assenza o, in uno, l’Essere), ebbene già rammemorarne la di essa co-originaria appartenenza all’Essere-presente quale suo fondamento trascendentale, significa, immediatamente, entificare la nullificazione, storica come precisato, del Niente, disvelare la velatura della Velatezza, dis-allontanare l’allontanamento della Lontananza, cioè, ancora riunendo in sintesi le molte e le sempre molto suggestive “dramatis personae” heideggeriane del Niente, oltrepassare la linea del nichilismo.

[…]

Ebbene, precisamente questo Ni-ente – cioè, ancora, non già il nulla “negativo”, bensì la Ni-entità che “prende” haecceitas, determinatezza altresì, ovvero, bicondizionalmente, essere, quindi datità e presenza, attraverso la “donazione”, temporalmente articolata (Geschehen), dell’assolutamente altro da sé che si particolarizza via via facendosi “sostanza” e forma – determina la localizzazione dell’es–senza dell’umano quale “luogo-tenente” della Storia del Ni-ente, cioè, in accordo al nostro dire, di questa teoria trascendentale della di esso completa contraddittorietà (élenchos) che, dispiegandosi secondo la discretudine del prima e del poi, imprime escate incontraddittorietà all’originario suo affermarsi anticipazionale. La sinolarità di forma-e-sostanza presa da principio dalla Ni-entità immediatamente sottraentesi a ogni disposizione sinolare, è, precisamente, l’orizzonte originario-estremo di accadimento della Seinsgeschichte.