Il concetto di valore, occorre primariamente indicarlo, trova il proprio fondamento semantico nell’orizzonte dell’economico. Pertanto, le stratificazioni d’ambito originariamente impresse sulla coniazione del proprio spettro di significazione, vengono con necessità conservate anche nell’eventuale suo portarsi-oltre (Verwindung) tale delimitazione definitoria prima.
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Secondariamente, giova, sempre preliminarmente, rammentare come qualsivoglia orizzonte assiologico sia intrinsecamente relativizzante ovvero annullante la distintività identitaria, l’incondizionatezza dell’alterità, trasmutata e sussunta in partizioni della quantità del valore: se si pensa per valori, anche l’assoluto del valore, per quanto gerarchicamente somma possa essere la propria collocazione all’interno del perimetro di ciò che vale, diviene nondimeno quantificato in quanto elemento dell’insieme, ricompresovi giacché dotato di un quantum di valore.
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Ebbene, sia che il pensiero valoriale abbia un fondamento debole, relativistico o soggettivo, neokantiano o weberiano, sia che esso abbia una maggiore cogenza d’oggettività e formalità, come nelle scalae di Max Scheler e Nicolai Hartmann, esso nonpertanto risulta intrinsecamente attuativo, ossia contiene in sé un irresistibile impulso auto-realizzativo, e tale fomite all’invalersi ne decreta l’immanente e l’immediata im-positività ovvero l’assolutezza della soverchieria: il suo essere, la sua posizione, è continua im-posizione e re-imposizione del proprio essere, giacché avere valore significa avere vigenza, essere in atto, dunque essere pertenuti nell’atto. La virtù dimora nel–l’orizzonte dell’Essere, del Sein, è oppure non è, e se è, sta nel–l’equipollenza qualitativa, nella distanza ovvero e nella differenza incommensurabile, mentre il valore trova se stesso nel dominio del Sollen, del Dover-Essere: è se e solo finché è tenuto fermo nell’Essere, ovvero se e solo fintantoché è fatto valere da qualcuno, per cui la posizione di qualcosa di valore, se non viene costantemente imposta, non è, e, per essere valente, deve necessariamente sempre esibire la misura del suo valore. Non essendo, egualmente, di per se stesso, il valore è se e solo se qualcuno lo pone e tiene in posizione, evidentemente contro la posizione dell’altro da questo valore, posizione di alterità ovvero di dissenso a cui, pertanto, via via viene tolto il terreno, la possibilità d’essere. Pensare per valori, pertanto, risulta intrinsecamente soverchiante, predatorio, im-positivo, totalizzante, “contrappassisticamente” (per le Geisteswissenschaften) nichilista e in massimo grado.
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Ogni assiologia, ebbene, diviene prospettivismo, soggettiva partizione del tutto che dimostra in sé un’intima aggressività ottica perfettamente disvelata dall’espressione weberiana “Angriffspunkt”: il punto di attacco della valutazione descrive, invero, l’immanente vocazione all’imposizione della particolarità del sé a tutto l’altro, l’inglobante espansionismo connaturato a ogni sistema valoriale.
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Se, dunque, in apparenza il multi-prospettivismo degli orizzonti assiologici inclina a relazioni improntate alla tolleranza e al pluralismo, all’inclusività relativistica, non appena “le cose si fanno serie”, non appena ovvero entra nel gioco della perimetrazione di ciò che realmente conta, l’interesse del Potere vigente a far valere la propria Weltanschauung, il soggettivismo irenico e neutrale dimostra tutta la propria intrinseca carica di ostilità e deriva totalitaristica.
La “struttura tetico-ponente” del valore, infatti, implica la continua intensificazione della valenza di ciò che è posto valente, la costante volontà ossia di espansione della propria giurisdizione di validità: precisamente per questa “natura imperialista” del valore, il pensare assiologico rappresenta la premessa all’invalersi politico e culturale della peggiore delle tirannidi, dell’estrema giacché della più coerente a sé, in quanto, in essa, l’escluso dal perimetro della valenza, l’estromesso ossia dal contenuto di questa posizione particolare che ha per punto entelechiale, per punto ovvero di preda della valutazione, l’essere il Tutto del valore, cioè il Tutto della positività, precisamente non trovando spazio posizionale alcuno – in quanto al di là dell’orizzonte complessivo di ciò che vale, niente ha valore o, egualmente, oltre il perimetro del positivo, nulla può essere –, non può che andare incontro all’annichilimento. Nell’assoluta negativizzazione o nientificazione dell’altro dall’orizzonte soggettivo del valore che ha vigenza, dunque potere, in quella giurisdizione di spazio e di tempo, si estrinseca, come detto, la più rigorosa e la più intollerante delle autocrazie, quindi la più terribile e temibile.
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Precisamente e ostinatamente contro questa pretesa di totalità che sempre più e da ogni lato stretta ci avvolge, Carl Schmitt qui, come altrove, prese pubblica posizione teoretica, domandando in primis del fondamento di legittimazione dell’assiologia universalistica dominante, dunque già del fondamento di Legitimität della Legalität giusnaturalistica post-rivoluzionaria e duplicemente trionfante nel Secolo che fu breve.
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In questa Tirannia dei valori ovvero, egualmente, per noi, in tale Totalitarismo della tolleranza, ai non allineanti, a tutti i dissidenti, a ogni eretico, non rimane altro ricetto se non il nulla, non altra possibilità d’essere è concessa se non l’annientamento della propria stessa esistenza differente.