Laureatosi in Lettere moderne presso l’Università degli Studi di Milano, approfondisce in seguito le categorie della concettualità occidentale, con particolare riferimento alle filosofie che ne rappresentano – severinianamente – il “sottosuolo”, la linea carsica ossia che dà deissi e sostanza alla Contraddizione, alla Potenza, alla Differenza, al Nulla originario, vena altrimenti e del pari battuta da Eraclito sino a Martin Heidegger e Giovanni Gentile.
Se l’Essere che anzitutto appare fosse piuttosto l’immediata autodatità o teticità fenomenica della contraddittorietà che, per coerenza identitaria o coalescenza al sé, endoreattivamente dimora nell’immanenza atra e apofatica della Contraddizione, l’Origine o l’Emersione del Tutto non dovrebbe in verità essere afferrata giacché Evento — intrinsecamente estroflessivo — dell’Uno-in-sé-diviso, autoctica epperò sempre più controaffermativa ante-sé deposizione dell’escate o trascendentalmente sempre sottraentesi meontica inseità dell’Antinomia (Pólemos), abissale altresì prolessi (Entwurf) e inaudito proponimento (Sollen) dell’assolutamente Estremo stesso? Non dovrebbe ossia la Seinsgeschichte più autenticamente venire indicata in quanto omodeissi monumentale del Nulla ultimo, tutto nell’orizzontalità ipseitale propria pre-avvolgente e anzitutto la principiale pro-posizione ipotetica del sé, enantiodromica epperò Epopea (Geschehen) o processuale destinazione (Geschick) al suo compimento?
Una pietra deposta a memoria, un pugno di
terra, un tributo d’ocra, la cura della
compostezza di due mani giunte, il lascito di
un fiore, la pietà di un adagiamento fetale:
questi e non altri sono i reperti della
paleoantropicità, e anzi questi il nulla della
deissi sua.
[...]
Pertanto, l’identità dell’Alterità che qui si
ex–cute, l’incontraddittorietà della
Contraddizione parimenti, non può apparire
se non giacché questo stesso teleologico
procedere (Geschichte)
dell’Alterità verso
l’escate puntualità del sé originariamente
promessosi quale il Sé-pro-mettentesi,
verso ebbene l’ultima o completa conquista
dell’affermazione prima e autoprincipiativa
del sé “Processo-di-conquista-del-sé”, se
non pertanto in quanto incrementale attribuzione di positività o
incontrovertibilità alla pro-posizione o affermazione
che appella l’Originario all’ex-sistenza in
quanto Pro-posizionalità, Negazione, Contraddizione, se non
ebbene quale progressivo suo
conferire o imprimere il carattere di
Verità, Atto, Essere e a punto Identità alla
deissi del contenuto della propria verità
prima, del proprio autoattuativo atto, della
propria esistenza primiera o precisamente
di essa sempre sua identità archea.
[...]
Se l’identità di qualcosa si è dimostrata
essere determinata dalla relazione tra contenuto del sé e
pertenimento presso sé di
tale inseità, ecco che ciascuna individua
medesimezza, se astratta dall’orizzonte
della Non-identità-in-sé (e dal suo processo)
e lasciata alla presa dell’Identità-in-sé (e
della sua stasi) — ciascuna determinata
medesimezza e certamente la stessa seconda
Identità-in-sé —, si ora palesa consegnarsi
all’immobile permanenza presso la propria
vuota tautologia, all’eterno altresì suo riverbero od
oscillazione improgrediente
dell’insé entro e attorno al punto didimo o
dipartito del sé: funzione ossia dell’in-sé-
Identità, funzione ovvero extrin-secazione del
suo contenuto identitario, si dimostra
pertanto essere esclusivamente il pertenimento presso sé del
qualcosa, il “che
cosa” del qualcosa-che-è-sé o contenuto distintivo dell’identità
dimostrandosi invece
ancora una volta essere determinato — autenticamente o
negativamente — dal processo di
coerentizzazione del sé dell’in-sé-Dif-
ferenziantesi, dal
(moltiplicativo/differenziativo) progresso
suo epperò di impressione d’incontraddittorietà identitaria o
extro-flessione
dall’in-sé di tutta la solo propria contraddittorietà, ebbene di
tutta la coerentizzazione o incontraddittorietà
possibile, parimenti di ogni possibile
attuazione o posizione distinta di coerenza
identitaria. Infine, la stessa permanenza
perpetuamente endoriflessiva dell’insé
presso il punto uni-duale del sé, si dimostra
ulteriormente essere impossibile da conseguire per ciascuna
posizionalità particolare
senza l’originario conseguimento — proleptico-ipotetico — del
punto tautologico
del sé della Non-identità, Differenza inseitale o medesimezza
prima la cui funzione o
extrin-secazione del proprio contenuto
identitario altro non appare pertanto essere
se non processo di conferimento autentico o
contraddistintivo di ogni contenuto
identitario o distintivo attraverso il processo di conferimento
(= di conquista)
d’incontraddistintività al sé del proprio
pre-suppositivo contenuto identitario (=
inseità) di Contraddistintività e
Negazione-di-ogni-identità, di Alterità-da-ogni-medesimezza e
Pre-sub-positività-in-
sé.
[...]
Ecco dunque che avvenendo lungo il procedersi dell’Originario, le
realtà distinte
- cioè i frantumi della deuteriorità
- prendono via via posizione entro la plurivocità categoriale
e
dell’Essere e dell’Identità,
cioè entro il loro co-aderire alla
Deuteriorità [...], ma proprio poiché
essa stessa ipostasi seconda o extrin-seca
della contraddittorietà dell’Originario entro
cui le realtà distinte (Tà ónta)
trovano dimora, a sua volta trova dimora a
punto entro la negatività (partecipazione
negativa) dell’insé e positivo e coerente in quanto Non-essere o Alterità, ogni
realtà distinta o precisamente, e d’ora innanzi con fondamento,
ogni sinolarità onto-tautotetica, e partecipano -
positivamente - e
dell’Essere, e dell’Identità,
per cui e sono,
e sono se stesse,
e partecipano -
negativamente - della positività
dell’in-sé Negazione (cioè di questa stessa
positività autentica, che si è dimostrata
divenire contenuto dell’inseità deuteriore,
alla cui plurivocità ogni dipartizione o
individuazione ulteriore afferisce per ciò
detto con positività), per cui e
non sono l’Essere-in-sé, e
non sono l’Identità-in-sé, e
non sono alcuna altra sin-olarità
onto-tautotetica o inseità distinta.
[...]
Pertanto, il toglimento o ad-nullamento della
contraddizione entro S, altro anzitutto non rappresenta
se non una particolarità
(Vestigium) del processo di incrementale sussunzione
entro la
Contraddizione in se stessa di tutta la
contraddizione presente oltre essa
Contraddizione prima o transcendentale,
questa particolarità ossia del progressivo empimento di
vacuità o nullità
dell’affermatività di C
(Kénosis), ovvero, a-un-medesimo-tempo in processione contraria, questa
particolarità del progressivo empimento di
posizionalità o affermatività della
Negatività di C (Oíkisis).
Tale orizzonte estremo di completezza di
C certamente rappresenta pertanto la
totalità della Mediazione, ebbene l’estroflessione o istituzione
di ogni punto o
posizione relazionale, di ogni distintività onto-tautotetica
altresì: la
Medialità-in-se-stessa infatti non in altro
può trovare compimento se non nel
massimamente mediare o corelare, ebbene nel
mediare o corelare ogni cosa con ogni
cosa (ekybérnese pánta dià
pánton). In quanto dunque il grado
massimo o totalità del mediare coimplica
l’affermazione di ogni punto o posizione relazionale, cioè
e, anzitutto,
della distintività onto-tautotetica
C, e, deuteriormente,
della distintività onto-tautotetica
S (“totalità [a-concreta]
dell’immediato”), e,
ulteriormente, secondo l’ordine del
tempo, di ogni distintività
onto-tautotetica (cioè della stessa concretezza di S),
la totalità dell’Immediato, ossia la Totalità-in-se-stessa o
l’inseitale Immediatezza, cioè ancora e del
pari la posizione dell’Eterno, dell’Essere,
dell’Incontraddittorietà e della Pienezza
(quindi già egualmente di S), altro
non è se non la posizione o realizzazione
deuteriore o esterna della contraddizione di C
- l’originaria o
immanente contrad-dizione di C
altro non essendo se non la stessa autoposizione od omo-realizzazione di sé in quanto
C, cioè C stessa -, altro epperò
egualmente non è se non la posizione o
realizzazione deuteriore o esterna proprio di
C medesima, ebbene la sua vestigia
seconda.
[...]
Il Cielo, radicato alla Terra, lotta per
oltre-protendersi contro l’allignamento
della Terra. La Terra, compresa nell’omni-avvolgimento del Cielo, lotta per restare
contro il trans-volgimento del Cielo. Gli Im-mortali, de-stinati alla Mortalità, lottano
per essere al-di-là della
partizione della Mortalità. I Mortali, determinati all’Im-mortalità, lottano per
essere-sé al-di-qua dell’im-partibilità dell’Im-mortalità. I mortali,
scrutando il Cielo, sostengono l’essere-stato
del lottante contro il Cielo. Gli Im-mortali,
calcando la Terra, riassumono l’essere-venturo del lottante
contro la Terra
[…]. Nella decisione che destina a determinazione
incontrovertibile, l’Uomo acquista l’irripetibile distintività
del se
stesso e del solo proprio solco identitario:
se vi fosse il Divino, esso dominio non
potrebbe sotto-articolarsi in
Pantheon; se l’Eterno si desse nel
modo d’essere dell’atto, non a essa stessa
dimensione imperitura potrebbe contrapporsi il perituro; se
l’Infinito comparisse
giacché presenzialità, non alcuna
individualità - mortale o immortale - conseguirebbe presenza e
posizione. Nella decisione che aderge la Perpetuità omni-sovrastante, l’uomo conferisce lontananza e
remotezza al proprio sguardo e scaglia
nell’ex-tremo l’Orizzonte del suo poter-essere
ancora, altrimenti, ulteriormente: se non vi
fosse trascendenza rispetto alla caducità,
non vi sarebbe processione, direzione,
senso, ad-venire, compimento e conquista.
Imprimendo il sé nella Terra e scrutando il
punto di fuoco ultimo del Cielo (Ouranós
Éschatos), l’Uomo dimora saldo e atremido nella solo sua
coincentrativa autenticità. Mortali-Immotali, Chthoníe-Ólympos, si co-ad-partengono e co-implicano, perennemente
antagonisti insistendo nell’im-morsatura dell’Uno auto-di-lacerantesi ove solo inquieta l’essenza e
polemica dell’Umano riposa e giace
[…].
Nell’accogliere il Cielo che preserba la
Terra-del-Cielo, nell’attendere la mortalità
che conduce all’immortalità-del-mortale,
avviene l’abitare autentico presso la Pro-abitazione come in-centro della Quadratura,
l’autentica custodia ossia della solo sua
impartecipabile
essenza d’Ulteriorità-in-sé, nella co-essenziale ripresa che ne
ri-presenzia, del
suo non-essere di Non-essere-ancora, tutto l’essere-stato.
Principiando dall’anapodissi dell’antiticipità ovvero dall’immediata evidenza dell’eidoclastia che predomina l’orizzonte dell’Oggi, l’autore conduce l’apodissi rivolta a disvelare l’essenza del Sollen faustiano – viepiù ipostatizzantesi nell’impressione, con necessità, del carattere del niente inautentico ossia aoristico all’ente ecceitale ebbene già, bicondizionalmente (Sýnolon), tanto posto presso identità quanto ascritto alla sostanza del Giorno –, ostendendola sino a porre coimplicazione tra Potere e Tempo, tra il Sentiero dell’Affermare (Seinsgeschichte), anzitutto, e l’endiadica Struttura dell’originaria Enantiosi (Nichtseinsgeschick). Rin-tracciato il fondamento di ciò che egemonizza l’Odierno nella corresponsione eliaca alla posizione diadica della Monade deuteriore, vengono ulteriormente analizzati i fenomeni strutturali e i sovrastrutturali epifenomeni di quanto qui appellato civilizzazione manchesteriana, per dipoi escuterne l’effige del flamine diale, poscia palesatosi nell’archetipo esistenziale innaturalmente insinuato e da primordio presso la terza funzione transtorica o dell’estensione crematistica aqualitativa. L’evento destinale dell’epoché kateconica statuale accosta alfine l’agile venagione cratofanica alla dichiarazione conclusiva circa l’unico compito autentico permasto all’Esserci gettato nella configurazione dell’Essere che inclina verso la Weltnacht.
Il cherigma della contraddizione dell’ente-escate; il farsi atto dell’avversario estremo ovverosia del plenario; la gloria della spoglia edacissima giacché entelechiale; l’avvento dei prossimi olimpici e dell’ultima sollevazione, la rivoluzione apofatico-conservatrice.
Dappertutto assistiamo alla preordinata e sistematica distruzione di ogni statuizione identitaria, di qualsivoglia individuazione distintiva, di tutte le differenze e anzitutto della Differenza stessa, tanto che è proprio questo impeto iconoclasta e riottoso a ogni adersione eidetica, a ogni disposizione precisa o decisa partizione dell’insé, egualmente a ogni ad-propriativa o immedesimativa posizione d’alterità contro l’altro tutto, a definire la Forma, l’Ecceità, l’Aspetto essenziale del nostro Tempo, la cui Figura, pertanto, non può non essere ora determinata e qui dimostrata (Deiknýnai) se non giacché compito (Sollen) di ridurre tutto ciò che è – dunque, per sinolare bicondizionalità, tutto ciò che è presso sé – a indeterminatezza ovvero a niente.
Sembrerebbe dunque che la categoria dell’Identità o della Sostanza (nell’accezione a punto di Essenza, Ousía) sia capitale nell’inquadramento del nostro Zeitgeist. Eccoci epperò nella necessità di compiere un ulteriore passo eccentrico lungo la nostra pur agile battuta di caccia, per porre, ora e ancora, tale cruciale categoria sotto indagine e giudizio.
[...]
Precisamente questa, ribadiamo, è l’essenza a fondamento del pluralismo omni-inclusivo a carattere planetario nell’oggi dominante, il niente inautentico quale Indistinzione assoluta o estinzione della luce della partizione, della forma (Morphé), dell’idea (Eidos), della qualità (Dasein), la tensione verso la Chora, il dover-essere (Sollen) dell’amorfia magmatica e anti-tipica della Hyle, non già, tuttavia, qui da intendersi, in accordo alla configurazione ontologica platonica e neoplatonica, quale primordiale matrice liscia o ingenerato ricettacolo neutro acconcio all’acquisizione dell’opera d’individuazione demiurgica, pre-esistente epperò sostrato materico della molteplice sopraggiungenza caduca e corruttibile, bensì, vettorialmente tutt’al contrario, quale punto di tensione che prende fondamento dal già esserci e dal già esserci-state delle occorrenza particolari della Storia-della-Distintività (tà pánta), non dunque congerie caotica quale pre-condizione dell’ordine e della misura a venire, bensì dissoluzione – sul fondamento a tendere del coacervo indifferenziato – di ogni già instituita regola e di tutte le già definite misure.
[...]
Stanata e imposta entro definizione l’essenza del Potere del nostro Tempo, nonché delineatane la dipendenza dalla coeva sua Configurazione dell’Ente in Totalità, questa altresì dimostratasi discendente dalla Storia-dell’Essere e, nella propria vicenda diurna o enantiodromica d’Ere ed Epoche in successione, indicata giacché condizionata a sua volta dalla struttura – endiadica – dell’autoctica proposizione originaria e trascendentale della Meonticità, appellata Destino, non ci rimane ora altro compito, dopo aver enucleato epifenomeni e fenomeni – tanto sovrastrutturali quanto strutturali – attraverso il dispiegamento dei quali si dà presa essoterica della suddetta assediata essenza oscura, se non metterci in caccia, parimenti profilativa ovvero definitoria, di ciò che abbiamo denominato, nell’indicarla quale affluente della manifestazione strutturale maggiormente nell’oggi dominante, “terza funzione trans-storica inautentica”, non ci rimane ossia se non scacciare dalle proprie millenarie latebre l’archetipo esistenziale che da principio l’incarna e serve, avviticchiato – ma parassitariamente – al terreno dell’estensione senza qualità.
[...]
Io e non-Io, Identità e Alterità, Essere e Nulla e, come anticipato, lo stesso orizzonte dello Spazio e del Tempo, principiano dunque con l’evenire a essere – nel Giorno che dimostra (Deixis, Deiknýnai) l’eidogonia o teoria ideale – della morte dell’altro, ovvero, ripetiamo, col bicondizionale attuarsi – nella Notte dell’Essenteci ancora, ebbene con l’evenire a essere giacché non ancora essenteci o essenteci-in-fine – della solo sua propria possibilità (Dýnamis) di dipartizione estrema o Non-più-esserci. La Morte rappresenta quindi l’evento deittico o diurno, individuale o intradestinale, parimenti, della Dipartizione originaria (Urteilung), ossia della notturna autoctisi dell’Io trascendentale o categoriale e, avvenendo, seco comporta o piuttosto concede avvio tanto al medesimo scorrere orientato (Télos) innanzi, sorgente ultima retrocedendo dal principio della quale il nostro presente continuamente ci si fa incontro, quanto alla nostra libertà di azione (Tätigkeit): avere un orizzonte topico (In-der-Welt-Sein) significa, infatti, autenticamente, avere (ancora) Spazio libero cioè nullo entro il quale possa trovare già e sempre dimora il sopravvenire di ogni nostro pro-getto o decisione, di ogni nostro agire e compiere. Noi, infatti, possiamo chiamare “spazio libero e s-confinato” ciò che si estende al di là di un confine, solo allorquando tracciamo il solco pristino: così come, prima della di-partizione, non c’è alcuno spazio libero, alcun esterno, neppure l’indistinto o l’indeterminatezza dello Spazio in sé, egualmente non si dà alcuna possibilità di azione ovvero di espansione dell’atto, neppure l’inazione. L’evento estremo della Morte, intenso precisamente in quanto saturazione assoluta dello Spazio-Tempo devasto o compimento insuperabile della Potenza dell’Accadere, rappresenta dunque, ancora sul piano del Giorno ovvero dell’Atto, anche l’entelechia (originaria sul pianto della Notte ovvero della Potenza) del Cronotopo, il Dischiudimento archeo (Lichtung, Erschlossenheit, Hiatus, Chásma).
L’evento sogliale del morire, da ultimo, determina pertanto l’essenza dell’Uomo, ascrivendogli con necessità i caratteri dell’anticipazionalità (Pró-lepsis) e dell’irreversibilità estrema che tutto autenticamente retro-possibilizza (Sein-zum-Tode). L’uomo, quindi, è quell’ente che, essenzialmente, solo possiede un Destino, ossia una meta, un tramonto, un punto di tensione (Ort). È propriamente nell’apertura originaria (Kénosis, Stéresis, Néantisation) determinata (Bestimmtheit) dalla non procrastinabilità ulteriore o dall’impossibilità dell’estensione nell’innanzi di cotale punto ultimo-principiale che può farsi a noi incontro, in quella dimensione libera, e nella fondazione assolutamente incondizionata ovvero perfettamente endoevacua, l’ordinato apparire e l’orientato di ciascuna onto-medesimezza, ovvero la meravigliosa teoria della molteplicità che noi chiamiamo Storia. L’uomo è dunque, egualmente, quell’ente che, per essenza, ha una Storia, per questo l’essenza o Destino dell’Esserci è la sua stessa esistenza immediatamente storica ovvero autoconquistantesi (Geschehen). Storia (Geschichte) e Destino (Geschick), Essere e Nulla, Identità e Alterità, Tempo e Spazio, Io e Non-Io, Pensiero e Materia, sono epperò coimplicati nella vicenda dell’Uomo e del suo morire, categorie trascendentali a priori rispetto a ogni ecceitale Esserci-gettato o intradestinalmente individuato.
[...]
Ordunque, per stringere – quasi in cattura – il cinto che avvince il Potere del nostro Tempo, l’Epoca della Seinsgeschichte in cui ciò che nell’Oggi tutto domina espande massimamente la propria potestà, e il paredro archetipico che serve – per sua “natura” scaltro e subdolo, vile e inverecondo – tale divinità possente e ormai unicamente valente, tanto nello Spazio (globalizzazione), quanto, ripetiamo, nel Tempo (interpretatio graeca, cancel culture), incliniamo ulteriormente il nostro incedere indulgendo ora presso le fronde magne parimenti ed elisie di Carl Schmitt e Aristotele.
Particolarmente illuminata, infatti, è la rideclinazione schmittiana della tripartizione funzionale indoeuropea in Nehmen / Teilen / Weiden (Appropriazione / Divisione o Spartizione / Produzione), eccezionalmente disadombrante e dunque meritevole di menzione, meditazione ed excursus, anzitutto poiché capace di indicarci il fondamento “strutturale”, l’aítion finale, l’id cuius gratia fu condotta a delezione la stessa tripartizione, nell’evento da noi, ancora in ipotesi, additato quale prima mozione del processo di compimento (archè tes kineseos) della Civiltà il cui cerchio culturale (Kulturkreis) ormai si estende – e con necessità archea – al mondo intero, coinvolgendo – ora anche sul piano del Giorno – l’intera vicenda di un’umanità già viepiù ridotta presso omogeneità nell’unità della produzione globale della ricchezza.
[...]
Se, dunque, sunteggiando il sentiero cinegetico sin qui seguito, la configurazione dell’ente in totalità nell’Oggi dice della distruzione assoluta e a carattere necessario di ogni posizione di assolutezza e necessità che possa disporsi quale fondamento in grado di pertenere inconcusso con cogenza l’ente determinato presso se stesso; se, ossia, egualmente, l’essenza della Sostanza oggi dimostra sé nella nientificazione della distinzione e della sussistenza dell’essente già individuato ovvero imposto in ecceità; se, ancora, tale idealforma ideoclasta e antitipica con-risponde – parlando della propria epistemica certezza ovvero della propria diuturnità nell’annichilire –, in seno alla struttura endiadica del Destino, alla posizione diadica della Monade, quindi – sul piano della Storia – all’Epoca (Faustisch Epoche) che tras-duce l’Eternità deuteriore dallo Stare entelechiale sempre salvo (phýsis aeì sozoméne) delfico, al Protendersi perenne (Streben) gotico, elevando epperò l’Infinito dell’Era conseguente a télos (Sollen) del proprio incedere distruttivo e infine (Zivilisation) inerzialmente o infertilmente deleterio; se, ulteriormente, la postura esistenziale oggi predominante, nel cogente corrispondere all’evento costitutivo dell’Esserci, è quella decisasi per la scelta di affissare esclusivamente la possibilità d’Essere-nel-mondo che tace tanto della trascendenza dell’anima quanto della eternazione dell’Io, tutta com’è protesa e prostrata nel culto dell’immanenza della materia ima, ora unica realtà esistente ovvero qui pensata giacché eternamente e incondizionatamente vera; se, da ultimo, coartando sino alla cattura la nostra cinegesia, la terza funzione trans-storica si è dimostrata essere quella deputata da principio all’accrescimento quantitativo della ricchezza materiale, dunque all’estroflessione comunitariamente profittevole dell’immanenza ctonia; e se, parassitariamente accucciata in essa, è la mercatura – entro la quale la finanza presiede la “bolgia” dell’estremizzazione astrattiva o contronaturale – a disvelare se stessa come intrinsecamente anti-tipica e a-qualitativa, normoclasta e dunque così recalcitrante per ogni imposizione di forma come avversa ad ogni decreto di commisurazione ultraindividuale, ipostasi epperò della pulsione profligativa di tutti i templi e le centurie, di tutti i litui e le grome, compreso, anzitutto, lo stessa confine trifunzionale; allora non possiamo ora se non solennemente dichiarare il mercate della civilizzazione faustiana, dunque il commerciante capitalista che esiste esclusivamente per la materia e la di essa profittabilità, brulicante ogn’ora e spasmodicamente industre nell’eterno presente dell’immanenza tanto preclusa all’autentica trascendenza storico-eroica-ecistica o all’endiadica, quanto all’inautentica o diadica ultramondanità empirea, quale paredro elettivo o esemplare del Potere del nostro tempo.
[...]
Se, dunque, ritorniamo alla sinottica che dispone l’ordinarsi storico, secondo Quantità, della struttura originaria del Destino, endiadico sotto tali riguardi categoriali, non possiamo se non rispondere positivamente al nostro completorio chiedere: l’Era deuteriore, infatti, è preceduta dalla figurazione o dalla formalità dell’Era ecistico-eneide, che si estende a ritroso per remoti millenni rispetto allo sbocciare delfico-eleatico, epperò ancora attende, dopo il compiersi della civilizzazione gotico-fichtiana, i propri adempimento e concretizzazione. E così sarà, secondo Necessità.
E, nondimeno, occorre con seria gravità interrogarsi su cosa com-porti, nel Giorno quindi lungo la Storia dell’Esserci, l’evento di tale avvento escate, nonché – nella praxis – su cosa possiamo noi congruemente compiere – certamente ipotizzando una coscienza inconciliata col nostro Tempo – per accelerarne il sopraggiungere parusiaco ovvero, preliminarmente, l’oltrepassamento tanto dell’orizzonte emerino a noi coevo quanto dell’ulteriore sua incondizionata intensificazione. Dovremmo forse noi – oggi – adire reazione e adergere il vessillo della contesa contro questo Potere e il suo archetipo funzionale-esistenziale? E, se sì, con quali modalità condurre la rivolta contro il mondo (post)moderno? Oppure dovremmo, al contrario, abbandonarci a una nostalgica e melancolica laudatio temporis acti, per dipoi accenderci in progetti di restaurazione dell’antico? E come, nel caso, potremmo autenticamente riattuarlo, certi dell’avanguardialità ovvero dell’intrascendibile condizionalità del nostro intorno di ri-presa? O non forse, ancora, slanciarci innanzi in cerca di un’ulteriore e di una migliore declinazione di senso per le eventuali nostre istanze progressiste, dimentichi di come qualsivoglia posizione, per quanto legittima possa astrattamente essere o apparire, muti perfino radicalmente significato in relazione allo sfondo contro il quale si staglia e in cui prende possesso posizionale e dimora?
[...]
Pertanto, in conclusione, ancora in concento alla struttura ed essenza dell’Originario, quale prassi conferisce autenticità all’Esserci nel Tempo nostro incipientemente atrescente, forse l’inazione che fideisticamente attende e tutt’al più salmodiante la salvazione del trionfo igneo che fin d’ora e da sempre s’annuncia quale d’impossibile non avvento in fine? O non, piuttosto, autentica noi forse intendiamo dichiarare essere quell’esistenza che affretta la teofania estrema del Sotèr imprimendo accelerazione al moto inerziale della Storia ormai irreversibilmente derivante verso la Weltnacht, condizione preliminare necessaria al clangore circonfulgente dell’Apoteosi asintotica, volenterosi così e non trascinati nolenti assecondanti la tensa del Fato ecpirotropico? È, forse, la nostra, in definitiva, una religio mortis universale o un ferreo determinismo stoico fondato sull’adiaforia circa il corso apocatastatico del cosmo?
[...]
Ecco pertanto ciò che solamente, nell’Oggi, può conferire pienezza autentica all’agire dell’Esserci: dare battaglia a tutto quanto appare consentaneo alla configurazione dell’essere tardo-faustiano, principiando da ogni fenomeno ed epifenomeno suo, ebbene, certamente ed elettivamente, dal Potere del nostro Tempo e dal kohèn gadòl proprio.
Nell’epistolario di Hegel e Niethammer, accanto alla celebre lettera del 13 ottobre 1806, in cui il futuro autore delle Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte dichiara tutta la propria ammirazione per Napoleone, per colui ovvero che, almeno in quell’attimo autoptico, ipostatizzava per il filosofo lo Spirito del Tempo, l’Idea universale fattasi e Atto e Individuo (“Ho visto l’imperatore – quest’anima del mondo – uscire dalla città per andare in ricognizione; è davvero una sensazione meravigliosa vedere un uomo siffatto, che, concentrato qui su un punto, seduto su un cavallo, si protende sul mondo e lo domina”), trova successiva collazione la missiva del 17 ottobre, in cui un Hegel meno entusiasta e senz’altro più prosaicamente preoccupato per le sorti del sé e del proprio lavoro (“Prima ancora della battaglia, le forze francesi hanno cominciato ad entrare nelle case con la violenza e a saccheggiarle. I soldati sono entrati anche nella casa dove abito […] Alcuni di loro mi hanno minacciato […]. L’incendio si è propagato a tutta la città e io mi sono infilato in tasca l’ultimo manoscritto della Fenomenologia da spedire a Bamberga […]. La guerra è il diavolo e nessuno se la sarebbe potuta immaginare così terribile”), ci offre una rara e preziosa testimonianza di quanto persino la più sublime e somma speculazione teoretica e complessa mediazione concettuale non possa mai né mai debba astrarsi e tentare rarefatta d’allontanarsi dall’incalzante immediatezza e umiltà dell’evento e della di esso concretezza dalla cogenza d’adeguata corresponsione intellettuale.
Chiamati dall’Assoluto del Reale a imporre l’ordinamento dialettico dell’Automovimento e la discretudine dell’oggettivazione analitica all’Erlebnis dell’accadimento pandemico, venturieri della Geistesgeschichte, qui rispondiamo.
Linguaggio,
Comunità,
Guerra
Dalle pristine aggregazioni sociali cosiddette preistoriche, sino alle Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte di Hegel, è lo Stato, la Res Publica, la Pólis, la Gemeinschaft a circoscrivere il “pomerium” dell’azione del singolo, limitandone le spinte individualistiche che tendono naturalmente a profligare quel “sacro” limite per “accumulare” quanta più “felicità privata” possibile, non semplicemente così danneggiando e depauperando un altrui indistinto, ma anzitutto la sua ipostasi organizzata istituzionalmente (e certamente circoscritta nello spazio da linee distintive che accomunano l’interno, altrimenti disperso e annullato nell’aoristia dell’Uno-metastorico, nella contraddistinzione dall’esterno).
Ma ecco che il nostro tempo – sommamente rivoluzionario – ribalta, o si illude di aver rovesciato, questo rapporto di forze, forse semplicemente narcotizzato dal loto della tecnica e del benessere.
E, nondimeno, ecco che nell’evento dell’estremo pericolo, l’Antico sembra tornare a reclamare il proprio diritto naturale di relazione gerarchica tra Popolo/Polis e Individuo/Cittadino.
Ed ecco, pertanto, lo spettro che terrorizza gli aedi del modernismo a trazione “Onu”, cioè, come sopra, a panopliale propulsione angloamericana, gli aedi e anzitutto i loro, da loro più o meno consaputi, mecenati: come potrebbe mai, infatti, un Mr Rothschild accumulare, da privato cittadino, capitali soverchianti i capitali di intere comunità, se la Comunità tornasse a soverchiare il singolo (nonché se le comunità, e i mercati, fossero molte, e molti, e non invece una, e uno)? Non potrebbe, semplicemente.
L’utile idiozia
del complotto permanente
A ogni compulsante piè sospinto lungo la Tabula Peutingeriana del ramificato pubblico nostro opinare, non si dà cippo che, accanto all’iscrizione consolare o imperiale, accosto ossia alla voce ufficiale del Potere, non riverberi l’eco degli esclusi da essa purpurea e pretesta ombra. Non deflagra materia, non sboccia manifestazione, non s’effonde morbo che non rechi seco, nell’agoramane propaggine “social” anzitutto, il contro-canto evocante il “Complotto del Potere”.
L’immediatezza e la ferrea regolarità dell’elevazione di tale epiclesi contrappuntistica consentirebbe liceità definitoria a colui che ravvisasse in questo fenomeno tipico del nostro mondo financo la genesi di un nuovo bio-tipo rivoluzionario, il “complottista di professione”, seguace della catechesi neo-trotskista che predica il “complotto permanente”.
Coreuti e Cretini
Dove inaudito ormai risuona l’estatico íakch’ò íakche, dove i bákchoi stormiscono, fascio e fremito al Dio del furore tributando e possessione di ritmo, dove la celeusma invocante il daímon di Demetra scandisce la processione che il Sacro stesso, custodito cataro, scorta a Eleusi; dove la ferocia beatifica della bakcheía omofaga, dove la ctonia dirompenza dell’órgia tumulta il suo ossequio di rivolta al Cosmo celeste, dove ora conduce l’oreibasía delle fiere menadi, il cui crine cupo in danza profetizzava per Shelley tempesta occidua?
Ma “a Eleusi han portato puttane”, e la Destra che leggeva Ezra Pound, Mircea Eliade, Rudolf Otto e Julius Evola ora eleva contesa contro l’avocazione dello Stato, dell’ipostasi ovvero della Comunità, di decidere e decretare la sospensione temporanea del chiuso consumare un godimento privato sterile, nichilista, lotofago, individualista, inautentico (e sostanzialmente ottuso), e ciò non certo per “totalitarismo etico”, per l’impressione paternalistica ossia di un’educazione al divertimento, non per didascalico etero-tropismo di coscienze, bensì semplicemente per tutelare la salute pubblica, il bene minimo e preliminare di ogni Pólis, la cui salvaguardia rappresenta una delle sue stesse costitutive ragioni d’essere.
“A Eleusi han portato puttane”, e forse “Solo un Dio può salvarci”; ma di certo non questa “Destra”, becera e illogica.
Proteggete i miei Padri
È il crepuscolo, e con la notte la morte presta piomberà sulla Comunità, vorace e voluttuosa molto, come un predatore acquattato nel folto oscuro. In quell’ora, il tremendo dell’ignoto scuote anche i più saldi tra i petti. D’improvviso il suono dell’umano immorsa in coriacità di cerchio respiri già sincopati, estromettendovi la tenebra e con saldezza della tenebra il terrore. È il più anziano del gruppo a parlare, colui che tanti soli ha sepolto, è lui ad ammansire il buio, ammantando di senso il mondo. È lui a rievocare l’Origine del tutto, l’ordinamento dell’Indistinto, è da lui che l’energia cosmogonica degli Antenati fondatori prorompe nell’avanguardia dell’attimo attuale.
Questi sono i nostri Padri, la congiunzione della filogenesi adamantina, che tutto avvolge e autenticamente subs-tiene. Questo è il loro valore, carne e ossa della Storia, ipostasi della tradizione. Loro è il mos maiorum, il costume antico che è già morale, assiologia, visione del mondo. Una società che li rispetta e protegge è una società che rispetta e protegge i propri fondamenti, la propria scaturigine, il proprio passato, la memoria che è già sangue. Una società che se ne prende Cura è una società che ha un Orizzonte, un Avvenire. Senza Storia l’Uomo non ha alcun Destino, e senza Destino l’Uomo è nulla. L’Uomo non è mai ente di Natura, egli è piuttosto l’Ex-centrico, “l’eterno protestatore contro quanto è soltanto realtà” (Max Scheler), il Negatore assoluto, endo-mediazionale e autoctico, dell’Essere stesso che da esso “sempre salvo” o eterno e principia e perisce.
Eroi intrepidi,
consumatori assuefatti
o nichilisti compiuti?
Nel movimento che sotto il nome di Rivoluzione Conservatrice ispirò le giovani generazioni del Primonovecento tedesco, la cosiddetta Kriegsideologie e la correlata sua religio mortis o pulsione tanatica trova certamente una collocazione capitale. La guerra è “gross und wunderbar” (Max Weber), il Conflitto discovre gli uni dei e liberi, gli altri decreta mortali e schiavi, e l’abisso dell’esistenza si rivela massimamente allorquando in gioco si dà la posta completa, ossia l’essere stesso dell’Esserci che ognuno di noi sempre è (Sein zum Tode).
L’eziologia di questo grande risveglio della “polemofilia” d’inizio ‘900 è presto diagnosticata: reazione all’imporsi dello stile di vita e dell’assiologia borghese dominante nella Belle Époque, in cui la “rassicurazione” dell’esistenza contro il rischio a cui l’essere stesso nel mondo getta rappresenta una fondativa cardinalità.
Pertanto, non appare filogeneticamente incoerente la posizione sostenuta, oggi, da molti epigoni di questa tradizione culturale: noi siamo ardimentosi, sdegniamo tirteamente la vita e ci gettiamo con D’Annunzio e Ulisse “nel turbo delle sorti”, mai dimentichi di sempre osare. Non temiamo epperò l’evento luetico, e non vogliamo consegnarci ai ceppi del Potere e dei suoi simboli di oppressione. Da anarchi reazionari, “passiamo al bosco”, ovvero affolliamo strade e locali pubblici e privati a volto scoperto, guardando senza orpelli protettivi la morte in faccia, afferrandola con le nostre mani nude e immacolate dal fluido smerciato dalle corporations chimico-farmaceutiche.
Bene, siamo orgogliosi che tale jungheriano afflato eroico ancora arda e riluca pur nel tempo della notte del mondo, in cui, per riprendere l’altro polo della dicotomia archetipica di Werner Sombart, l’Händler domina incontrastato, sull’Helden come sul mondo intero.
Nondimeno, ben consapevoli dell’essenza politropa e scaltra molto del “bio-tipo” nell’oggi imperante, ci sentiamo in dovere di ardire il tentativo d’indagine prospezionale del fenomeno suddetto, per scongiurare, persino in esso, la possibile infiltrazione del medesimo mercante, inoculazione certamente in grado di trasporre l’intrepidezza stessa di questi novelli eroi asservendola al suo Potere e alla di esso teleologia dell’esistere.
Pandemia:
Le vere colpe del Capitalismo
e del Moderno
Nel pubblico e forse troppo anepoptico opinare nostro coevo, nell’agorà globale ovvero in cui ogni epigono di Guglielmo Giannini ha una propria Teoria del Tutto, l’evento pandemico che a tutt’oggi ancora ingaggia l’umano, obbligandolo a una corresponsione autenticamente contrastativa o inautenticamente lotofago-negazionista, avrebbe potuto rappresentare un’occasione elettiva – giacché, heideggerianamente, è nel darsi della situazione estrema che l’essenza trans-luce corrusca, squarciando la coltre obnubilante del quotidiano (Alltäglichkeit) – di comprensione, anzitutto, dell’Orizzonte del Moderno e delle sue figurazioni; di critica e di contrasto, conseguentemente; di autentico oltrepassamento, in ultimo e auspicabilmente.
Invece, la diffusa e patente Hamartia, che ha finito per co-involgere gli stessi sedicenti oppositori de Il Potere del nostro Tempo (2023), ha saputo solo offrire opportunità ermenutiche dal sapore avverso, non di lotta epperò né di speranza, bensì di constatativa rassegnazione e perdurante sconfitta, ha potuto ossia esclusivamente concedere ostensione all’analitica che sa afferrare il pressoché ormai completo livello di omni-afferranza a cui il nostro attuale Orizzonte è pergiunto, avvolgendo entro sé (actu exercito) la stessa sua contraddittorietà (actu signato), per ciò e apparente e adiafora, tanto chiassosa quanto sterile.
La mutazione antropologia è compiuta, e la sottocultura al Potere ha assorbito la sottocultura all’opposizione. Sia a te lieve il sepolcro, Pier Paolo.
Creonte-Antigone,
Atene-Socrate,
Massachusetts-Thoreau
Mai come nell’orizzonte aperto dall’evento pandemico e dalla sua corresponsione politica, si è dato dibattito, anche giuridico, circa il fondamento del potere statuale, lo stato di ex-cezione, il rapporto tra legalità e legittimità, legge e coscienza, polis e cittadino, pubblico e privato, collettivo e individuale.
Poiché noi consideriamo il rovesciamo di questa relazione, la sua sovversione ovvero rispetto al millenario modo proprio di darsi ante tale evento cesurale rivoluzionario, una delle figurazioni che con-rispondono alla con-figurazione ontologica dell’Originario nel Tempo del Moderno, non possiamo non ulteriormente tornare sull’argomento, per ancora e meglio sistematizzarlo, almeno in intenzione.
Possiamo affermare anzitutto tripartizione nella disposizione lineare di un segmento che con-rela poli ob-posti:
«Un mondo plurimillenario al tramonto, l'arida ombra e l'adunca della reificazione nichilista tutt'intorno avanza ogni avita fioritura viepiù insterilendo col circonfondersi del proprio tocco nullificante, un'ombra di senescenza e nondimeno sì d'ansito avanguardista e modernolatria catafratta e paludata da recidere col proprio invitto incedere e altero ogni innocenza in antico sboccio di già hegeliana memoria, un'oscurità, potremmo noi postmoderni intensificare, tanto omnipervasiva e sussiegosa nella propria pretesa di assolutezza e suprematismo assiologico, eudemonismo postulato universalistico e metastorico, eleuteromania ed emancipazionismo crociato, da non lasciare adito d'evasione e d'eccezione posizionale alcuno, né nello spazio (globalizzazione), né nel tempo (cancel culture): ipotizzando che questa fosse la Befindlichkeit percepita e vissuta, con Sombart, da buona parte dell'intellettualità e dell'intrepida gioventù germanica del tempo, si può davvero con leggiadra liceità parlare d'immotivata aggressione imperialista prussiana?».
Werner Sombart, Mercanti ed Eroi
«Non ci sentiamo di commiatare lo Jünger analista del nichilismo senza un'ulteriore redenzione, derivantegli proprio dall'inquadrarne la posizione di contrapposizione entro l'orizzonte dell'Eroe: se il mondo si fa metropoli cosmopolita, l'Held non può che passare alla boscaglia primordiale, se l'esistenza si fonda sull'oltranzistica ricerca di assicurazione dell'esistenza stessa, l'Hêrôs Theos non può se non bramare le brune Chere della Morte come splendida chiarità di Sole, se il valore dell'Uomo è trascinato nella polvere, l'Übermensch con necessità si eleva al cielo dell'oltre-umano. Se, pertanto, l'Eroe è riscattato nel persistere lungo la direzione del vettore di lotta, preferiamo imputare alla callidità precordiale e alla politropia prototipica del suo Avversario, l'errore del verso vettoriale scelto».
Ernst Jünger – Martin Heidegger, Oltre la Linea
«La “struttura tetico-ponente” del valore, infatti, implica la continua intensificazione della valenza di ciò che è posto valente, la costante volontà ossia di espansione della propria giurisdizione di validità: precisamente per questa “natura imperialista” del valore, il pensare assiologico rappresenta la premessa all'invalersi politico e culturale della peggiore delle tirannidi, dell'estrema giacché della più coerente a sé, in quanto, in essa, l'escluso dal perimetro della valenza, l'estromesso ossia dal contenuto di questa posizione particolare che ha per punto di preda entelechiale il Tutto del valore, l'òlon della positività, non trovando ricetto posizionale alcuno, neppure presso le più remote appendici dell'essere e dell'eterodossia, non può che declinare nell'annichilimento e nell'Atlantico».
Carl Schmitt, La tirannia dei valori