Nell’arco teso tra un agile giro di stagioni, flebile fruscio d’ali nella storia dell’uomo, cinque pensatori capitali e decisivi per le sorti del Novecento convergono, certamente principiando da differenti terreni e mirando orizzonti altri, presso l’uno della Trascendenza o, piuttosto, usando l’espressione del primo tra loro, dell’assolutamente o totalmente Altro (ganz Anderes).
È il 1917 dunque, quando Rudolf Otto, ricercando i fondamenti irrazionali del darsi del divino all’uomo, pubblica la sua opera più celebre e cruciale: Das Heilige. Über das Irrationale in der Idee des Göttlichen und sein Verhältnis zum Rationalen (Il sacro. L'irrazionale nell'idea del divino e la sua relazione col razionale):
Undici anni dopo, il fondatore dell’antropologia filosofica, Max Scheler, ne La posizione dell’uomo nel cosmo (Die Stellung des Menschen im Kosmos), escutendo l’origine dell’irriducibile alterità della “natura umana” rispetto alla Vita stessa, raggiungerà parimenti la cifra e l’orizzonte della medesima Ulteriorità inseitale:
Di lì a poco, nel 1931, l’altro grande pensatore della disciplina da Scheler stesso nominalmente definita, Helmuth Plessner, in Potere e natura umana (Macht und menschliche Natur), nel tentativo di sottrarre l’antropico e la solo sua imperscrutabilità o abissalità esistenziale, la solo sua propria altresì “dimensione oscuro-potestativa”, da qualsivoglia definizione meta-storica della di essa essenza, confinandone una volta e per sempre l’insé entro una struttura formale e universalmente valida, giungerà a evocare egualmente la dimensione dell’Alterità o Al-di-là radicale:
Pressoché, come detto, nel medesimo torno d’anni, Martin Heidegger, pensatore per il quale il cifrarsi destinale della Differenza, intesa a punto come irriducibile alterità da ogni ente, rappresenta, autenticamente, l’Essere stesso, ossia il Ni-ente-che-è, il fondamento a-bissale epperò entro la cui storia ogni sopraggiungenza ulteriore si dà – via via ovvero articolandosi nel Tempo – nell’orizzonte della presenza e nella distintività, parlerà, in cammino verso l’Essenza del fondamento (Vom Wesen des Grundes, 1929), della Trascendenza come del carattere ipseitale dell’esserci (dell’Uomo):
E, ancora (in Was ist Metaphysik?, 1929), evocando precisamente la relazione tra apertura dell’ulteriorità o possibilità della differenza e nullità del fondamento autentico:
Infine, nel 1932, Karl Jaspers, postosi sulle tracce dell’essenza del filosofare come interrogazione oltre-passante, parlerà, nella sua Metafisica, del naufragio come cifra ultima del darsi della Trascendenza:
Certo, ogni comparatistica adeguatamente fondata non può prescindere dal rinvenire le possibili cause di una sorgenza concettuale comune anzitutto nella comune afferenza all’orizzonte anzitutto concettuale (nonché, come detto, crono-topico e oltracciò linguistico), per cui sarebbe sufficiente parlare di milieux e di mutue influenze.
E non certo ciò si vuol misconoscere, bensì, piuttosto, precisamente affermarlo proprio per trascenderlo in direzione di una più ambiziosa ricerca che sappia indicare il fondamento stesso di quel medesimo orizzonte loro comune fondamento all’emersione del concetto della Trascendenza.
Nondimeno, per poter ciò compiere, dobbiamo antecedere essa perimetrazione prospettivale prettamente primonovecentesca, dobbiamo antecederla ossia ampliarla in direzione dell’Origine stessa dell’Uomo e della (sua) Storia, egualmente dell’E-vento della Trascendenza o Dia-vergenza d’Orizzonte, allo scopo di indicare l’insorgenza concettuale comune da cui siamo partiti quale elettivo epifenomeno, ostensosi con necessità lungo il sentiero del Giorno, dell’enantio-articolarsi strutturalmente mono-duale della Notte originaria.
Non possiamo non ulteriormente rimandare a ΔIÁ l’elevazione dei fondamenti dell’affermazione che evoca nell’Origine la coimplicazione endiadica di permanenza-e-ulteriorità nell’immediatamente auto-principiativo pro-porsi presso permanenza (= enadità) dell’Ulteriorità-da-ogni-permanenza (= diadità), nell’immanente altresì ante-(de-)posizione autoctica – e, ispeitalmente endo-di-varicativa o intro-contrastativa, auto-generativa del proprio orizzonte ultimo o sempre ulteriore di compimento – del sé dell’in-sé Trascendenza-da-ogni-posizione-che-permane o Pro-lessi estrema: precisamente essa trascendentale o sempre escate di(a)-lacerazione archea, intimamente o identitariamente coalita, della Dia-vergenza assoluta o a punto ipseitale pro-schiude, nella proto-decisione o partizione prisca (Ur-teilung) dell’Uno-in-sé-diviso, essa di-mensione della Dif-ferenza heideggeriana o dell’ascetica “protestazione” “contro tutto ciò che è soltanto vita e realtà” di Scheler, dell’eccentricità autopotestativa di Plessner o del naufragio dell’inseità dell’esistenza di Jasper, come esattamente del Totalmente Altro di Rudolf Otto, essa dimensione ex-statica ebbene esclusivamente avvenendo e autenticamente dimorando entro la quale l’Uomo stesso è ed è se stesso quale facitore di quella medesima Seinsgeschichte precisamente coinvolta nel contro-strutturarsi per epoche (ed epoché o apofaticamente) della predetta Notte originaria.
Ebbene, ciò prestamente preposto, è nostra volontà avanzare la tesi secondo la quale l’emergere comune della Trascendenza in opere e pensieri come affermato sì capitali per la storia del Novecento, e in anni sì decisivi per la contro-vicenda dell’Originario, corrisponda precisamente al pressoché incipiente lì – e ancor più qui – compiuto venire meno del dischiusivo darsi della Trascendenza, del pressoché ossia ultimo adempiersi di quell’Era, definitasi Deuteriore, in cui, viepiù nientificandosi il contenuto della posizione originaria (ovvero, ancora, dell’Oltre-passante-ogni-posizione e anzitutto o identitariamente la propria stessa prima o autocausativa), viepiù permane esclusivamente il suo stare presso posizione elevato a valore assoluto, cioè a inseità autonoma e distinta giacché Posizionalità-in-sé.
Come, la Trascendenza-in-sé emergerebbe proprio nel tempo del suo con-chiusivo venir meno, progressivamente scacciata dall’incipientemente completo distendersi, ogni posizione-di-latenza a saturare, dell’immanenza sua deuteriormente (etero-)promossa a Immanenza-in-sé o Pienezza ontica parmenidea? Ha forse ragione il poeta nel dire che “lì dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva” (“Wo aber Gefahr ist, waechst das Rettende auch”, F. Holderlin, Patmos, 1803)?
Certamente, ma occorre non recedere d’innanzi al portato di questo evento soteriologico in cui l’era della nullificazione della Trascendenza – epperò, coimplicativamente, dell'identità particolare (“è questo il tempo del nichilismo inautentico, il tempo della notte del mondo, quando le singole realtà o posizioni di identità particolari sono nulla e del Nulla non ne e più nulla”) –, verrà trascesa. Ma, ancora, per poter ciò fare, occorre preliminarmente porre con precisione la Trascendenza stessa presso definizione, epperò anzitutto emanciparla dall’Eternità e dalla sua aoristia identitaria.
Sempre in ΔIÁ, infatti, si sono posti:
La dimensione della Trascendenza è dunque immorsata, e da principio, alla sua stessa destinazione alla finitudine, ovvero alla sua propria immanenza o haecceitas. La Trascendenza originaria è trascendenza determinata.
La Trascendenza deve portarsi oltre qualcosa in direzione di qualcosa d’altro dal trasceso. Entro il punto del trascendimento deve
pertanto dischiudersi iato o differenza tra soggettività e
oggettività del genitivo, ovvero si dà immediata dia-vergenza nella stessa
costitutivamente puntuale-diadità del trascendimento, simultanemante o in-sé e “agito” (trascendimento di qualcosa che trascende) e “patito” (trascendimento di qualcosa che è trasceso).
La Trascendenza originaria deve epperò portarsi e sempre – egualmente sinché è, epperò sinché è coalita al sé – oltre se stessa. Il suo proprio avvento, abissale, null’altro è infatti se non precisamente l’apertura – a punto trascendentale o archeo-escate – della sua profondità di compimento, ebbene il destino della sua storicità, cioè l’apertura – ipotetico/pro-lettica – dell’alterità dal suo stesso essere-qualcosa, dal suo stesso, del pari, essere qualcosa di eguale al sé o endo-concordantesi irenicamente. E questa apertura della differenza è precisamente il contenuto di quell’immanenza o vestigia prima che sta inconcussa tutto l’oltre sé e-veniente a fondare.
Stando in sé, pro-cede oltre la posizione del sé; pro-cedendo-si, riconquista l’in-sé o contenuto, epperò trascendentale, della posizione prima del sé. Nondimeno, proprio essendo Trascendenza determinata – e lo è con necessità, giacché, sempre facendo riferimento ai fondamenti espressi in ΔIÁ, se non lo fosse, ed essa non sarebbe sé, ebbene non sarebbe alcunché, e null’altro sarebbe sé, ebbene non alcunché semplicemente (ci) sarebbe – non può perennemente oscillare tra posizione del sé e superamento del sé verso l’insé del sé. Deve ossia, e simultaneamente, e ritrovare – sempre – lo stesso in-sé a ogni (e per ogni: élenchos) trascendimento, e non – mai – ritrovare lo stesso sé. Ma cosa implica per il Differente-da-ogni-posizione e sempre ritrovarsi e non mai ritrovarsi se non esattamente – sempre – ritrovarsi nel non – mai – ritrovarsi in alcuna posizione? Cosa ossia, altresì, se non il sempre ritrovarsi nel ritrovare sempre l’altro o il differente da sé? La processiva estroflessione della propria contraddittorietà rappresenta precisamente la storia o teoria eliaca dell’essere o del darsi della Differenza originaria, la meraviglia della molteplicità che sempre ci si para d’innanzi.
Non ci sentiamo tuttavia di dispiegare qui il destino di storicità o dispiegamento dell’Originario, neppure per accenni succinti. Rinviando dunque ulteriormente il gentile lettore al luogo deputato alla dimora dei fondamenti. Ci limiteremo invece a stilizzare l’avanzamento dall’Origine esclusivamente per poter dare ragione dell’affermazione che vuole l’emersione comune della Trascendenza a inizio Novecento non esclusivamente frutto di mutui influssi culturali, bensì cor-rispondente al Destino della Notte mono-duale.
Abbiamo accennato alla necessità che l’oltrepassamento del sé dell’insé pristino trovi, secondariamente, lungo l’itinerario di ricerca sempre ulteriore della differenza dal sé, nella tensione ossia all’impressione progressiva del carattere dell’opposizione al sé dell’insé Opposizione-a-sé, il sé del suo insé primo o trascendentale divenuto inseità o distinto contenuto della posizione di seità, cioè il suo stare come Altro-da-ogni stare giacché Stare-in-sé (Essere), coimplicativamente il suo essere concorde col sé in quanto Discorde-in-sé giacché Concordia(-col-sé)-in-sé (Identità), e abbiamo definito questa Era come Deuteriorità (o distendimento della Contrarietà ex-trinseca).
Procedendo oltre questa posizione testé raggiunta, affermiamo ora, sempre con spiccia anapodissi, il dimorare di una speculare necessità d’articolazione e oppositiva e diadica entro la stessa Aoristia seconda: anzitutto il sé dell’insé conseguente sta nel modo del sé, per cui sta perennemente, per poi trans-mutare nel modo dell’altro, quando l’aoristia dell’Aoristia abbandona il suo stare per avvolgere il suo divenire. È precisamente nel tempo dell’eterno e infinito divenire o trascendere, nel contro-tempo epperò del Deuteriore, che il Trascendere originario perde la sua determinazione proprio per pre-pararsi a riprendersela completamente più oltre.
Cosa pertanto, approssimandoci alla conclusione, implica l’avvenire all’essere della configurazione in cui la seità dell’inseità originaria sta, giacché inseità, nel modo d’essere concorde con la stessa inseità prima, se non precisamente l’attuarsi della massima distanza estrinseca dell’Originario da sé? E cosa, ancora, per questo Originario in sé o intrinsecamente Distanza o Contraddizione, tale configurazione annuncia se non il suo stesso portarsi presso la soglia del proprio ultimo essere perfettamente o compiutamente contraddittorio, ebbene del suo stare, insé, nel modo dell’alterità estrinseca? E, infine, cosa significa essere incontraddittoriamente in Atto per la Potenza-in-sé? Socchiudiamo per un istante l’abisso che immediatamente ci si espande innanzi nel pensare l’entelechia dell’Originario nell’attimo dell’adempimento estremo di tutta la storia della solo sua propria contraddittorietà, per concentrarci nel dare fondatezza filogenetica o eziologica all’emergenza Primonovecentesca da cui abbiamo preso avvio.
La Trascendenza (Geschichte) è l’Evento dell’Umano. Nella sua endiadicità eidetica prendono contemporaneamente e coimplicativamente dimora e l’immanenza-della-Trascendenza, il Mondo dell’Uomo, la sua Mortalità, e la trascendenza-della-Trascendenza, il suo Cielo, la sua Immortalità. L’incentro dei Quattro (Geviert) non è null’altro che l’essenza stessa dell’Umano: Trascendenza determinata, Kléos Athánatos.
La Trascendenza è pertanto la dimensione che consente all’Uomo di esistere autenticamente come l’ente che è, ossia di essere perennemente in cammino verso (Télos, Ort) la sua precisa essenza e puntuale.
Ma è destino che l’Uomo – in un certo tempo – perda la propria trascendenza, precisamente perdendone l’immanenza: la Trascendenza, infatti, autenticamente intesa come oltrepassamento perfettamente determinato, non più ridotta-presso-sé, non più immorsata o coalita-al-sé, si apre sino ad annullarsi nella sconfinatezza del Perenne Stare che non mai alcunché oltrepassa né può, e ciò precisamente secondo necessità o consentaneamente alla struttura della Notte originaria.
Ma è enantio-dromicamente destino (Ge–schick) che l’Uomo non possa – per sempre o perennemente a punto – perdere la propria Trascendenza teleologica (Geschehen), giacché è l’Oltrepassamento l’Originario, e il Perenne Stare (egualmente il “Perenne Divenire”, cioè il divenire verso l’In-finito che propriamente non mai a nulla perviene, precisamente epperò perennemente così re-stando) è il Deuteriore in esso e contenuto e avvenuto.
Ecco dunque che il clangore dell’epiclesi del Trascendimento Teleologico, ebbene, ancora, l’essenza o destino dell’uomo, torna e ritorna sempre a scuoterlo ed ex-ortarlo verso sé.
Ecco dunque che nel Tempo della Notte dell’Originario, la Notte originaria torna e prepotentemente a manifestarsi, abbacinando anzitutto desti pensatori, chiamandoli (e chiamandoci con loro) al profligante ultraincedere questo stesso nostro perduto tempo, gettato nella massima distanza dall’autenticità della Lichtung.
Ma trascendere la notte della Notte, distruggere l’eterno in favore dell’Eternazione-del-mortale, non altro significa se non conquistare asintoticamente l’entelechia della Notte trascendentale - la Gloria della pira di Ettore, il Crepuscolo degli Dei -; lo si sappia.