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Filosofica del 900
Carl Schmitt
Plettenberg 1888
Plettenberg 1985
Itinerarium mentis per vestigia
Secondo l'Ordine del Tempo
κατα την του χρόνου τάξις
Teologia Politica
Terra e Mare
Appropriazione / Divisione / Produzione
Teoria del partigiano
La tirannia dei valori
Teologia politica
Quattro capitoli sulla dottrina della sovranit
Politische Theologie
Vier Kapitel zur Lehre von der Souver nit t
, 1922.
Edizione italiana: In, Le categorie del politico , il Mulino, Bologna 2019
Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione.

Il sovrano crea e garantisce la situazione come un tutto nella sua totalità. Egli ha il monopolio della decisione ultima. In ciò sta l’essenza della sovranità statale, che quindi propriamente non deve essere definita giuridicamente come monopolio della sanzione o del potere, ma come monopolio della decisione […]. Il caso d’eccezione rende palese nel modo più chiaro l’essenza dell’autorità statale. Qui la decisione si distingue dalla norma giuridica, e (per formulare un paradosso) l’autorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto.

Sarebbe razionalismo conseguente dire che l’eccezione non dimostra nulla e che solo la normalità può essere oggetto di interesse scientifico. L’eccezione confonde l’unità e l’ordine dello schema razionalistico. Nella dottrina dello Stato positivistica si incontrano spesso argomenti del genere […]. Solo una filosofia della vita concreta non può ritrarsi davanti all’eccezione e al caso estremo, anzi deve interessarsi ad esso al più alto grado. Per essa l’eccezione può essere più importante della regola […]. L’eccezione è più interessante del caso normale. Quest’ultimo non prova nulla, l’eccezione prova tutto; non solo essa conferma la regola: la regola stessa vive solo dell’eccezione. Nell’eccezione, la forza della vita reale rompe la crosta di una meccanica irrigidita nella ripetizione.

Che l’idea giuridica non possa mutare da sé sola si ricava dal fatto che essa non dice nulla su chi la debba usare. In ogni trasformazione è presente una auctoritatis interpositio. Non è possibile ricavare dalla semplice qualità giuridica di una massima una esatta determinazione di quale persona individuare o quale concreta istanza possa pretendere ad una autorità del genere […]. Il fatto che la decisione sia stata presa nel luogo opportuno rende la decisione stessa relativamente – ma in certe circostanze anche assolutamente – indipendente dalla giustezza del suo contenuto e rende superflua ogni ulteriore discussione in merito, se pur vi siano ancora dubbi. La decisione diventa in quel momento indipendente dal suo fondamento ed acquista valore indipendente.

Dal punto di vista del contenuto della norma che sta a fondamento ogni momento decisionale costitutivo specifico è qualcosa di nuovo e di esterno. In senso normativo, la decisione è nata da un nulla. La forza giuridica della decisione è qualcosa di diverso dal risultato del suo fondamento. Essa non si spiega con l’aiuto di una norma, ma viceversa è solo grazie ad un punto di riferimento che si stabilisce che cosa sia una norma e che cosa sia la concretezza normativa.

La norma giuridica, in quanto norma di decisione dice solo come si deve decidere non anche chi deve decidere […]. Il problema dunque è quello della competenza; un problema che non si può porre, sé tanto meno risolvere, in base alla qualità giuridica del contenuto della norma. Risolvere i problemi di competenza rimandando al dato materiale, significa burlarsi della gente.

Per la realtà della vita giuridica ciò che importa dunque è chi decide. Oltre al problema della giustezza del contenuto, vi è quello della competenza. Il problema della forma giuridica consiste nel contrasto fra soggetto e contenuto della decisione e nel significato autonomo del soggetto.

Lo stato di eccezione ha per la giurisprudenza un significato analogo al miracolo per la teologia […]. Infatti l’idea del moderno Stato di diritto si realizza con il deismo, con una teologia e una metafisica che esclude il miracolo dal mondo e che elimina la violazione delle leggi di natura, contenuta nel concetto di miracolo e produttiva, attraverso un intervento diretto, di un’eccezione, allo stesso modo in cui esclude l’intervento diretto del sovrano sull’ordinamento giuridico vigente. Il razionalismo dell’illuminismo ripudiò il caso di eccezione in ogni sua forma.

La teologia politica dell’epoca della Restaurazione offre un’illustrazione illuminante all’affermazione che Max Weber ha compiuto nella sua critica della filosofia del diritto di Stammler: che cioè ad una filosofia della storia radicalmente materialista si possa contrapporre irrefutabilmente una filosofia della storia altrettanto radicalmente spiritualista. Infatti gli autori controrivoluzionari spiegarono i mutamenti politici in base ad un mutamento della concezione del mondo e ricondussero la rivoluzione francese alla filosofia dell’illuminismo. E fu solo in chiara antitesi che viceversa i rivoluzionari radicali imputarono il mutamento del pensiero ai mutamenti delle condizioni politiche e sociali. Già negli anni venti del XIX secolo era un dogma diffuso in Europa occidentale e soprattutto in Francia che i mutamenti religiosi, filosofici, artistici e letterari fossero strettamente legati alle condizioni politiche e sociali. Questo nesso si è radicalizzato ed ha assunto seria dimensione sistematica nell’elemento economico della filosofia marxista della storia, dove anche per i mutamenti politici e sociali venne ricercato un punto di riferimento, che venne individuato nell’economia. Una tale spiegazione materialistica rende impossibile una considerazione isolata della conseguenza ideologica, poiché essa vede dappertutto solo “riflessi”, “rispecchiamenti”, “travestimenti” dei rapporti economici, e quindi opera conseguentemente con spiegazioni ed interpretazioni psicologiche e, quanto meno nella sua accezione volgare, con sospetti continui. Proprio a causa del suo massiccio razionalismo essa può però facilmente rovesciarsi in una concezione irrazionalistica della storia, poiché intende ogni pensiero come funzione ed emanazione di processi vitali. In questo modo il socialismo anarchico-sindacalista di Georges Sorel è stato in grado di mettere insieme la filosofia vitalista di Bergson con la concezione economica della storia di Marx.

La borghesia liberale vuole un Dio, che però non deve poter divenire attivo; essa vuole un monarca, che però deve essere privo di potere, essa pretende libertà e uguaglianza, e tuttavia anche la limitazione del diritto di voto alle classi possidenti, per assicurare all’istruzione e alla ricchezza il necessario influsso sulla legislazione, come se istruzione e ricchezza dessero il diritto di opprimere gli uomini poveri e non istruiti; essa elimina l’aristocrazia del sangue e della famiglia e lascia però sussistere l’impudente signoria dell’aristocrazia del denaro, che è la forma più ordinaria e stupida di aristocrazia; essa non vuole né la sovranità del re né quella del popolo.

L’odio contro la monarchia e l’aristocrazia spinge il borghese liberale a sinistra; il timore per la sua proprietà minacciata dalla democrazia e dal socialismo radicale lo spinge di nuovo a destra, verso una monarchia forte il cui apparato militare lo possa difendere; così egli oscilla tra i suoi due nemici con l’intento di ingannarli entrambi.

Anche i postulati economici, la libertà di commercio e di produzione sono, per un’indagine seria di storia delle idee, solo derivati di un nucleo metafisico.

Oggi non vi è nulla di più moderno della lotta contro la politica. Finanzieri americani, tecnici industriali, socialisti marxisti e rivoluzionari anarco-sindacalisti si uniscono nel richiedere che venga messo da parte il dominio non obiettivo della politica sulla obiettività della vita economica. Ormai devono esistere solo compiti tecnico-organizzativi e sociologico-economici, ma non problemi politici. Il tipo oggi dominante di pensiero tecnico-economico non consente più nemmeno di percepire un’idea politica. Lo stato moderno sembra essere diventato davvero ciò che Max Weber vide in esso: una grande fabbrica.

Terra e Mare
Una riflessione sulla storia del mondo
Land und Meer
ine weltgeschichtliche Betrachtung
, 1942
Edizione italiana: Adelphi, Milano, 2002
L'uomo è un essere di terra che calca il suolo. Staziona, cammina e si muove sulla terra dal solido fondamento. Questa è la sua posizione e la sua base; in tal modo egli ricava il suo punto di vista. Ciò determina le sue impressioni e il suo modo di vedere il mondo. Egli non solo acquisisce il suo orizzonte ma anche la forma del suo procedere e dei suoi movimenti, la sua figura, in quanto essere vivente, nato e muoventesi sulla terra […]. La terra è il suo materno fondamento, esso è, pertanto, un figlio della terra. Nel prossimo egli vede fratelli terreni e cittadini della terra. Dei tradizionali quattro elementi — terra, acqua, fuoco ed aria — è la terra l'elemento che è destinato all'uomo e che più fortemente lo determina. L'idea che l'esistenza umana possa venir caratterizzata da un altro dei quattro elementi altrettanto decisamente come da parte della terra sembra, a prima vista, solo una possibilità fantastica. L'uomo non è un pesce né un uccello e ancor meno una creatura di fuoco, sempre ammesso che ce ne siano. Sono dunque l'esistenza e l'essenza dell'uomo nel loro nucleo puramente terranee e solamente riferite alla terra? E sono veramente gli altri elementi solo cose di secondo rango che si aggiungono alla terra? Non è così semplice. La questione se sia anche possibile un'altra esistenza umana diversa da una determinata puramente in senso terrestre è più evidente di quanto noi pensiamo […]. Importanti ricercatori hanno scoperto che accanto a popoli autoctoni cioè terrestri, sono esistiti anche popoli autotalassici cioè determinati completamente dal mare, che non avevano mai messo piede sulla terraferma e in essa scorgevano semplicemente il confine della loro pura esistenza marittima […]. Le nostre rappresentazioni di spazio e tempo sviluppatesi a partire dalla terraferma risultano loro altrettanto estranee e incomprensibili quanto, all'inverso, a noi uomini di terra, il mondo di quegli uomini puramente marini rivela un altro mondo a stento concepibile. Si tratta dunque di una questione aperta: qual è il nostro elemento? Siamo figli della terra o del mare? A questa domanda non si può rispondere con un semplice aut-aut. Miti antichissimi, moderne ipotesi scientifiche e risultati della ricerca protostorica lasciano aperte entrambe le possibilità […]. La storia del mondo è storia di lotta di potenze marinare contro potenze di terra e di potenze di terra contro potenze marinare.

'Schiume di mare' d'ogni tipo, pirati, corsari, avventurieri del commercio marittimo, formano, accanto ai cacciatori di balena e ai navigatori a vela, la colonna dei pionieri della elementare svolta verso il mare che si realizzò nel XVI e XVII secolo […]. I corsari del XVI e del XVII secolo […] ebbero un grande ruolo storico. Essi svolsero la funzione di attivi combattenti nel grande scontro sul piano mondiale tra l'Inghilterra e la Spagna. Dai loro nemici, gli spagnoli, se catturati, venivano bollati come delinquenti comuni, assassini a scopo di rapina, e impiccati. Anche i loro governi li lasciarono cinicamente cadere quando' diventavano scomodi o se lo richiedevano considerazioni di politica estera. Spesso era veramente solo un caso se un pirata otteneva un'alta carica quale dignitario del re o finiva sul patibolo condannato a morte come pirata [...]. Nei 45 anni del suo regno (Elisabetta I° Tudor, 1558-1603) l'Inghilterra divenne una nazione ricca, cosa che prima non era stata. In precedenza gli Inglesi allevavano pecore e vendevano la lana alle Fiandre, poi invece affluirono verso l'isola da tutti i mari i favolosi bottini dei corsari e dei pirati inglesi. La regina si rallegrò di questi tesori e ci si arricchì. In questo senso essa con tutta la sua verginità non fece niente di diverso da quanto numerosi inglesi, nobili e borghesi, uomini e donne della sua epoca fecero: parteciparono tutti al grande affare del bottino. Centinaia e migliaia di uomini e donne inglesi si trasformarono allora in « capitalisti corsari», in corsaìrs capitalisis. Anche questo fa parte della svolta elementare dalla terra al mare della quale qui si tratta […]. Ancora nel quattordicesimo anno del regno della regina Elisabetta la maggior parte del naviglio inglese era in viaggio per spedizioni di rapina o per affari illegali e nel complesso appena poco più di 50.000 tonnellate di stazza erano impiegate per il traffico commerciale legale.

Ciò non può essere spiegato mediante raffronti generali con precedenti esempi storici di dominio marinaro, neppure tracciando paralleli con Atene o Cartagine, Roma, Bisanzio o Venezia. Qui siamo di fronte ad un caso nella sua natura unico. La sua specificità e incomparabilità consistono nel fatto che l'Inghilterra, in un momento storico e in un modo completamente diverso rispetto alle precedenti potenze marinare, ha compiuto una trasformazione elementare, ha veramente spostato la sua esistenza dalla terra all'elemento del mare. In tal modo non ha vinto solo molte battaglie sul mare e molte guerre ma qualcosa di completamente diverso e infinitamente superiore, e cioè ha compiuto una rivoluzione e, propriamente, una rivoluzione del tipo più grande, una planetaria rivoluzione spaziale [...]. Si potrebbero trovare ancora ulteriori esempi storici ma tutti impallidiscono di fronte alla più profonda, e ricca di conseguenze, trasformazione della configurazione planetaria di tutta la storia del mondo a noi nota. Essa avvenne nei secoli XVI e XVII, nell'epoca delle scoperte dell'America e della prima circumnavigazione della terra. Allora sorse, nel senso più audace del termine, un nuovo mondo e la coscienza complessiva, prima dei popoli dell'Europa centrale e occidentale, in seguito quella di tutta l'umanità, mutò radicalmente. Questa è la prima vera e propria rivoluzione spaziale nel senso pieno del termine che abbraccia terra e mondo. Essa non è paragonabile a nessun'altra. Non fu solo una estensione quantitativamente spaziale di particolare significato dell'orizzonte geografico, quella che si verificò da sé a seguito della scoperta di nuovi continenti e di nuovi mari. Piuttosto cambiò, per la coscienza complessiva degli uomini, con l'eliminazione totale delle rappresentazioni tradizionali, antiche e medioevali, l'immagine globale del nostro pianeta e, oltre a ciò, la rappresentazione astronomica complessiva di tutto l'universo. Per la prima volta nella sua storia, l'uomo prese nella sua mano tutto il reale globo come una sfera.

Gli uomini furono allora, dunque, in grado di rappresentarsi uno spazio vuoto, cosa che in precedenza non avevano potuto, anche se alcuni filosofi avevano già parlato di «vuoto». Prima gli uomini provavano angoscia davanti al vuoto, cioè quello che si chiama horror pacai. Ora, dimenticando questa angoscia, non trovarono alla fin fine nulla di strano nel fatto che essi e il loro mondo esistessero nel vuoto. Gli scrittori dell'Illuminismo nel XVIII secolo, Voltaire in testa, provarono persino un sentimento di orgoglio di fronte a tale rappresentazione scientificamente dimostrabile, di un mondo in un infinito spazio vuoto. Ma prova però per una volta a rappresentarti veramente uno spazio veramente vuoto. Non solo uno spazio vuoto d'aria ma anche totalmente privo della materia più minuta e sublime: prova dunque, una volta, nella tua immaginazione a distinguere veramente spazio e materia, a separare l'uno dall'altra e a pensare l'uno senza l'altra. Puoi altrettanto bene pensare il nulla assoluto. Gli illuministi hanno molto riso di quel horror vacui. Ma forse era solamente il comprensibile brivido davanti al nulla e al vuoto della morte, di fronte ad una rappresentazione nichilistica e di fronte al nichilismo in generale. Una simile trasformazione, qual è quella contenuta nell'idea di un infinito spazio vuoto non può essere soltanto spiegata come conseguenza di una semplice estensione geografica della terra conosciuta. Essa è talmente fondamentale e rivoluzionaria che altrettanto bene si potrebbe, al contrario, sostenere che la scoperta di nuovi continenti e la circumnavigazione della terra siano solo modi di venire alla luce e conseguenze di mutamenti che avvengono in una dimensione più profonda. Solo per questo lo sbarco su un'isola sconosciuta poté aprire tutta un'epoca di scoperte.

Per una rivoluzione spaziale è necessario qualcosa di più che lo sbarco in una località fino ad allora sconosciuta. È necessario un mutamento dei concetti di spazio comprendente tutti i gradi e i campi dell'esistenza umana. La gigantesca svolta epocale del XVI e XVII secolo ci rivela ciò che questo significhi. In questi secoli di un'epoca di svolta, l'umanità europea ha contemporaneamente affermato un nuovo concetto di spazio in tutti i campi del suo spirito creativo. La pittura del Rinascimento superò lo spazio della pittura gotica medioevale. I pittori collocarono gli uomini e le cose da essi dipinti in uno spazio che, prospetticamente, produsse una profondità vuota. Gli uomini e le cose stanno e si muovono ora in uno spazio […]. La musica ricavò le sue armonie e melodie dalle antiche tonalità e le pose nello spazio acustico del nostro cosiddetto sistema tonale. Teatri ed opere fecero muovere i loro personaggi nella vuota profondità dello spazio prospettico del palcoscenico separato da un sipario dalla sala. Tutte le correnti spirituali di questi due secoli, Rinascimento, Umanesimo, Riforma, Controriforma e Barocco contribuirono, quindi, alla totalità di questa rivoluzione spaziale. Non è esagerato sostenere che tutti gli ambiti vitali, tutte le forme d'esistenza, tutte le specie della umana forza creativa, arte, scienza e tecnica furono partecipi del nuovo concetto di spazio.

Ogni ordinamento fondamentale è un ordinamento spaziale. Si definisce una costituzione di un paese o di un continente come il suo ordinamento fondamentale, il suo Nomos. Ora il vero e proprio ordinamento fondamentale si basa, nel suo nucleo essenziale, su determinati limiti e delimitazioni spaziali, su determinate misure e su una determinata distribuzione della terra. All'inizio di ogni grande epoca c’è, pertanto, una grande appropriazione di territorio. In particolare ogni rilevante mutamento e ridefinizione della immagine del mondo sono connessi a mutamenti geopolitici e ad una nuova divisione della terra, ad una nuova appropriazione di territorio.

La terraferma appartiene ora ad un pugno di Stati sovrani mentre il mare non appartiene a nessuno o a tutti o, in verità, solo ad uno: all'Inghilterra. L'ordinamento della terraferma consiste nella divisione in territori statali: l'alto mare è invece libero, cioè non appartiene ad uno Stato e non è sottomesso a nessuna sovranità territoriale statale. Questi sono i fondamentali dati di fatto specificamente spaziali dai quali si è sviluppato il diritto internazionale cristiano-europeo degli ultimi trecento anni. Questa la legge fondamentale, il Nomos della terra in quest'epoca. Solo alla luce di questo dato di fatto originario dell'appropriazione inglese del mare e della separazione di terra e mare acquistano il loro senso vero numerosi modi di dire e frasi spesso citate. Così, ad esempio, il detto di Sir Walter Raleigh: «Chi domina il mare domina il commercio del mondo e a chi domina il commercio del mondo appartengono tutti i tesori del mondo e il mondo stesso». O: «Tutto il commercio è commercio mondiale. Ogni commercio mondiale è un commercio marittimo». In questo si legano, al culmine della potenza marittima e mondiale inglese, gli slogans della libertà: «Qualsiasi commercio mondiale è libero commercio» [...] Ma come conseguenza della appropriazione inglese del mare tanto il popolo di questa nazione quanto quelli che sono nella scia delle sue idee ci hanno fatto l'abitudine. L'idea che una potenza di terra possa esercitare un potere mondiale che comprenda tutto il globo terrestre, è, secondo la loro visione del mondo, inaudita e insopportabile. Diverso è il caso di un potere mondiale costruito su una esistenza marittima separatasi dalla terra e abbracciarne tutti gli oceani del mondo. Una piccola isola al confine nord-occidentale d'Europa si era trasformata in centro di un impero mondiale distaccandosi dalla terraferma e decidendosi per il mare. In una esistenza completamente marittima essa trovò i mezzi di un dominio mondiale esteso su tutta la terra […]. Dopo che la separazione di terra e mare e il contrasto dei due elementi erano divenuti la legge fondamentale del pianeta, si levò su questa base una possente impalcatura di dottrine, princìpi dimostrativi e sistemi scientifici con i quali gli uomini si resero conto della saggezza e della ragionevolezza di questo stato di fatto senza tener d'occhio il dato originario dell'appropriazione inglese del mare e la sua determinatezza storica. Famosi studiosi dell'economia politica, giuristi e filosofi elaborarono questi sistemi che alla maggior parte dei nostri bisavoli sembrarono molto convincenti. Essi non furono alla fine più in grado di concepire una diversa scienza economica e un altro diritto internazionale. In questo puoi intravvedere come il grande Leviatano abbia potere anche sullo spirito e l'animo umano. Questo è ciò che più sbalordisce del suo dominio.

Ma se è così, allora viene anche a cadere la separazione di mare e terra sulla quale fu costruito il legame, sino ad oggi esistito, di dominio del mare e dominio del mondo. Viene meno il fondamento dell'appropriazione inglese del mare e, in tal modo, il Nomos della terra fino ad oggi valido. Al suo posto cresce inarrestabile e irresistibile il nuovo Nomos del nostro pianeta. Lo evocano le nuove relazioni dell'uomo con gli antichi e i nuovi elementi, e lo impongono a forza le mutate dimensioni e i nuovi rapporti dell'esistenza umana. Molti vi vedranno solo morte e distruzione. Alcuni crederanno di vivere la fine del mondo. In realtà stiamo solo vivendo la fine del rapporto, sin ad oggi esistito, tra terra e mare. Ma l'angoscia umana di fronte al nuovo è altrettanto grande quanto quella davanti al vuoto anche se il nuovo è superamento del vuoto. Per questo molti vedono solo insensato disordine dove in realtà un nuovo senso è in lotta per il suo ordinamento. L'antico Nomos viene certamente meno e con esso un sistema complessivo di misure, norme e rapporti che ci sono stati trasmessi. Ma ciò che avanza non è per questo, però, solamente mancanza di misura o un niente nemico del Nomos. Anche nella lotta accanita tra forze antiche e nuove sorgono giuste misure e si plasmano sensate proporzioni. Anche qui ci sono dèi e governano, grande è la loro misura.

Appropriazione / Divisione / Produzione
Un tentativo di fissare correttamente i fondamenti di ogni ordinamento economico-sociale a partire dal nomos
Nehmen / Teilen / Weiden
Ein Versuch, die Grundfragen jeder Sozial- und Wirtschaftsordnung vom NOMOS her richtig zu stellen
, 1953
Edizione italiana: In, Le categorie del politico , il Mulino, Bologna 2019
Il sostantivo greco nomos deriva dal vero greco nemein […]. Nemein significa in primo luogo prendere / conquistare (Nehmen) […]. Così come la relazione linguistica dei termini greci legein-logos si traduce in tedesco nella relazione parlare-lingua (Sprechen-Sprache), analogamente la relazione linguistica dei termini greci nemein-nomos conduce, in tedesco, alla relazione prendere-appropriazione (Nehmen-Nahme). Nomos quindi significa prima di tutto l’appropriazione (Nahme). Nemein significa, in secondo luogo, spartire / dividere (Teilen). Il sostantivo nomos significa, quindi, in seconda istanza, l’azione e il processo del dividere e del distribuire, un giudizio (Ur-Teil) e il suo risultato.

Nomos è dunque, in secondo luogo, diritto nel senso della parte che ciascuno ha, il suum cuique. In termini astratti: nomos è il diritto e la proprietà, cioè la parte di ciascuno ai beni della vita.

Nemein significa in terzo luogo coltivare / produrre (Weiden). È questo il lavoro produttivo che normalmente è fondato sulla base della proprietà […]. Questo terzo significato di nomos acquista il suo mutevole contenuto dal tipo e dal modo di produzione ed elaborazione dei beni.

Ciascuno di questi tre processi – prendere, dividere, elaborare – appartiene completamente all’essenza di ciò che finora, nella storia umana, è apparso come ordinamento giuridico e sociale. In ogni stadio della vita associativa, in ogni ordinamento economico e di lavoro, in ogni settore della storia del diritto, finora, in un modo o nell’altro, si è preso, diviso e prodotto.

Ma il problema maggiore consiste nell’ordine di successione di questi processi […]. L’ordine di successione dei tre momenti e la loro valutazione muta a seconda della situazione storica generale, dei metodi di produzione e di distribuzione dei beni e anche a seconda del quadro che gli uomini si fanno di se stessi, del loro destino e della loro condizione storica.

Fino alla rivoluzione industriale del XVIII secolo in Europa, l’ordine e la successione dei tre momenti riposava unicamente sul fatto che qualsiasi appropriazione era riconosciuta come indispensabile premessa e fondamento per la successiva divisione e produzione. Perciò per interi millenni della storia e della coscienza umana rimase fermo l’ordine di successione tipico. La terra, il fondo e il campo, era il primo presupposto di ogni economia e di ogni diritto ulteriore […]. All’inizio sta dunque [...] l’appropriazione della terra. Solo su di essa si compie poi la divisione e dopo questa l’ulteriore trasformazione.

La storia dei popoli, con le loro migrazioni, colonizzazioni e conquiste è una storia di appropriazione della terra. Quest’ultima è appropriazione di terra libera, cioè di suolo sino a quel momento privo di padrone, oppure conquista di terra nemica, sottratta al precedente proprietario in virtù del titolo giuridico della guerra esterna oppure redistribuita coi metodi del bando, della privazione dei diritti e della spoliazione per cause politiche interne. In ogni caso sempre l’appropriazione di terra è l’ultimo titolo giuridico per tutte le divisioni e distribuzioni successive e quindi per ogni successiva produzione […]. Tutte le appropriazioni di terra più note e famose della storia, tutte le grandi conquiste che si sono compiute con le guerre e le occupazioni, con le colonizzazioni, le migrazioni di popoli e le scoperte geografiche, confermano la precedenza fondamentale della appropriazione nei confronti della divisione e della produzione.

Prima che ciò che è stato acquisito per mezzo di conquista, scoperta, espropriazione o in qualsiasi altro modo, possa essere diviso, esso deve venire contato e pesato, secondo la successione primordiale: misurato/pesato/diviso.

Che la divisione e la produzione dovessero essere precedute dall’espansione coloniale, cioè dalla appropriazione e in particolare dalla appropriazione di terra era un ordine di successione che doveva apparire in se stesso, a un socialista come Lenin, medievale, per non dire atavico, reazionario, contrario al progresso e alla fine disumano […]. Questo è il punto in cui il socialismo si incontra con l’economia classica e il suo liberalismo […]. Progresso e libertà economica consistono nel fatto che le forze produttive divengono libere e in tal modo si compie un aumento tale della produzione e della massa di beni di consumo che l’appropriazione ha termine e nello stesso tempo la divisione non costituisce più un problema autonomo. Il progresso della tecnica conduce chiaramente a uno sterminato aumento della produzione. Ma se si dispone del sufficiente o addirittura di più del sufficiente, in tal caso appare come atavismo e come ricaduta nel diritto primordiale di preda, proprio di un’età di miseria, scorgere nella appropriazione il primo fondamentale presupposto dell’ordinamento economico e sociale. Il livello di vita diventa sempre più alto, la divisione diventa sempre più facile, sempre più innocua, e l’appropriazione alla fine è non solo immorale, ma anche irrazionale dal punto di vista economico e quindi insensata. Il liberalismo è una dottrina della libertà, della libertà di produzione economica, della libertà di mercato e soprattutto della regina delle libertà economiche: della libertà di consumo.

Proprio per il fatto di sollevare in modo tanto diretto e nella sua interezza il problema dell’ordinamento sociale, come problema di divisione e di distribuzione, il socialismo urta di nuovo contro l’antica questione dell’ordine di successione e del significato attribuito alle tre fasi originarie della vita associata e dell’attività umana. Neppure il socialismo può sottrarsi al problema di fondo del prendere, dividere e produrre e alla problematica del loro ordine di successione.

Il nostro discorso […] riguarda […] la coesistenza, la successione e la valutazione alternata delle categorie fondamentali del prendere, dividere e produrre che sono contenute in ogni nomos concreto e ineriscono in modo latente, seppure con diverso peso e secondo un ordine di successione diverso, a tutti sistemi giuridici, economici e sociali per poi divenire di nuovo sempre più virulenti a causa di qualche improvviso mutamento. Il problema scientifico che stiamo inseguendo diventa ancor più chiaro se riconduciamo alle nostre tre categorie del nomos anche la questione attuale, e comprensiva di tutto il resto, che sorge oggi di fronte a qualsiasi considerazione di scienza del diritto: la questione cioè della situazione attuale dell’unità del mondo. È vero che gli uomini hanno oggi “preso” la loro terra a tal punto come unità, che di fatto non resta più nulla di cui appropriarsi? È vero che l’appropriazione ha oggi cessato di esistere e che vi è ormai solo divisione e distribuzione? Oppure forse esiste soltanto la produzione? E inoltre ci chiediamo: chi è l’unico grande appropriatore, questo unico, grande divisore e distributore del nostro pianeta, il pilota e pianificatore della produzione unitaria del mondo?

La divisione e la distribuzione, cioè il suum cuique, presuppone l’appropriazione della massa da distribuire, cioè una occupatio o appropriatio primaeva. La continuità di una costituzione è riconoscibile fintantoché permane riconoscibile e riconosciuto il rimando a questa prima appropriazione […]. La storia universale è una storia del progresso – o forse anche soltanto del mutamento – nei mezzi e nei metodi dell’appropriazione: dalla occupazione della terra dei tempi nomadi e agrio-feudali alla conquista dei mari del XVI e XVII secolo, fino alla appropriazione industriale dell’epoca tecnico-industriale e alla sua differenziazione fra Paesi sviluppati e non-sviluppati, per finire all’appropriazione dell’aria e dello spazio dei nostri giorni.

Allorché la più importante funzione dello Stato viene a consistere nella distribuzione o redistribuzione del prodotto sociale – questo è il caso dei Paesi industrializzati in cui si è assestato lo Stato amministrativo che provvede all’assistenza delle masse – prima di poter distribuire o redistribuire il prodotto sociale, lo Stato deve appropriarsene, sia attraverso imposte o contributi, sia mediante la distribuzione dei posti di lavoro, sia con la svalutazione o con altri strumenti diretti e indiretti. In ogni caso le posizioni di distribuzione o redistribuzione sono pure posizioni politiche di potere che vengono dapprima prese e poi distribuite. Neppure qui è dunque venuto meno il problema dell’appropriazione.

In un saggio del 18 gennaio 1957, Alexandre Kojève coniò, con riferimento al nuovo Nomos der Erde, l’espressione “capitalismo distributore”. Egli intendeva così dire che il capitalismo moderno, tendenzialmente illuminato, che è intento all’aumento della forza d’acquisto dei lavoratori e allo sviluppo industriale dei Paesi sottosviluppati, significa ormai qualcosa di sostanzialmente diverso dal capitalismo solo appropriatore a cui si riferiva Marx. Bisogna però ricordare a Kojève che non può esservi nessun uomo capace di dare ciò che, in un modo o nell’altro, non abbia preso. Solo un Dio che crei il mondo dal nulla può dare senza prendere, e anch’egli solo nell’ambito del mondo da lui creato a partire da quel nulla.

Teoria del partigiano
Integrazione al concetto del Politico
Theorie des Partisanen
Zwischenbemerkung zum Begriff des Politischen
, 1963
Edizione italiana: Adelphi, Milano 2005
Quando mi capita di parlare di teorie moderne sul partigiano devo sottolineare, a scanso di equivoci, che in realtà non ne esistono assolutamente di antiche, in contrasto con quelle moderne. Il diritto di guerra classico proprio del diritto internazionale europeo quale è andato formulandosi finora, non prevede la figura del partigiano intesa in senso moderno […]. Finché la guerra conservava ancora qualcosa dell'immagine di duello aperto e cavalleresco, non poteva essere altrimenti.

Il partigiano moderno non si aspetta dal nemico né diritto né pietà. Egli si è posto di fuori dell'inimicizia convenzionale della guerra controllata e corcoscritta, trasferendosi in un'altra dimensione: quella della vera inimicizia, che attraverso il terrore e le misure antiterroristiche cresce continuamente fino alla volontà di annientamento.

Ci sono due tipi di guerra particolarmente importanti in relazione con la lotta partigiana, e in un certo modo a essa affini: la guerra civile e la guerra coloniale […]. Il diritto internazionale europeo classico aveva relagato ai margini queste due pericolose forme di guerra e di inimicizia. La guerra dello jus publicum Europaeum era una guerra interstatuale, condotta da un esercito statuale regolare contro un altro esercito statuale regolare.

Per una teoria del partigiano, così come qui la si intende, è necessario tenere d'occhio alcuni criteri […]: l'irregolarità, l'accresciuta mobilità della lotta attiva e l'accresciuta intensità dell'impegno politico. Vorrei ancora stabilire un ulteriore quarto carattere distintivo dell'autentico partigiano: […] il carattere tellurico […]. Il partigiano è e resta nettamente distinto non solo dal pirata, ma anche dal corsaro, così come la terra e il mare rimangono distinti quali spazi elementari dell'attività umana e del contrasto bellico tra i popoli.

Il partigiano rappresenterà dunque un combattente attivo di tipo specificamente terrestre […]. Ma anche il partigiano autoctono di origine agraria viene risucchiato nel campo di forze dell'irresistibile progresso tecnico-industriale. Attraverso la motorizzazione la sua mobilità si fa tale che egli corre il pericolo di sradicarsi completamente dal suo ambiente […]. La motorizzazione fa perdere la sua connotazione tellurica al partigiano, che finisce per diventare un ingranaggio della mastodontica macchina che opera politicamente sul piano mondiale.

Con questi quttro criteri – irregolarità, accresciuta mobilità, intensità dell'impegno politico e carattere tellurico –, e senza dimenticare le possibili conseguenze di un ulteriore incremento della tecnicizzazione, dell'industrializzazione e della deruralizzazione, abbiamo delimitato, sul piano concettuale, l'orizzonte delle nostre osservazioni.

Con la Convenzione di Ginevra del 1949 sono state introdotte, all'interno dell'istituto giuridico della occupatio bellica – che il Regolamento per la guerra terrestredell'Aja aveva disciplinato con precisione –, modifiche i cui effetti restano per molti versi imprevedibili. Combattenti della resistenza che prima sarebbero stati considerati partigiani vengono ora equiparati ai combattenti regolari non appena risultino organizzati. Gli interessi delle popolazioni delle zone occupate vengono sottolineati con tale decisione rispetto a quelli della potenza occupante che, almeno in teoria, è reso possibile ogni tipo di resistenza contro l'occupante, anche quella partigiana, purché essa sorga da motivi rispettabili quel tanto che basta per farla apparire non illegale.

Nonostante i legami e le commistioni […] fra i due tipi di partigiano, il difensore autoctono della propria patria e l'attivsta rivoluzionario che ha per campo d'azione il mondo intero, l'antitesi resta. Questa si basa […] su concetti fondamentalmente diversi di guerra e di inimicizia, che si realizzano in tipi diversi di partigiano. Laddove la guerra viene condotta da entrambe le parti come uno scontro non discriminatorio di uno Stato contro l'altro, il partiginao è una figura marginale, che non fa saltare il quadro della guerra e che non muta la struttura complessiva del processo politico. Quando però si passa a considerare il nemico che si combatte un vero e proprio criminale, quando la guerra diventa per esempio come una guerra civile tra nemici di classe, il suo scopo primario è l'annientamento del governo dello Stato nemico, e allora il rivoluzionario effetto dirompente della criminalizzazione del nemico trasforma il partigiano nel vero eroe della guerra. Egli esegue sentenze di morte contro criminali, e rischia, da parte duea, di essere trattato come un criminale o come un vandalo. È questa la logica di una guerra per justa causa senza il riconoscimento di un justus hostis. Attraverso di essa il partigiano rivoluzionario diventa la vera figura central edle conflitto.

Le quattro Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949 sono il frutto di sentimenti umani e di uno sviluppo dei princìpi umanitari che meritano ammirazione […]. Il loro fondamento resta la statualità della conduzione della guerra e una conseguente delimitazione di questa, con le sue chiare distinzione fra guerra e pace, militare e civile, nemico e criminale, guerra fra Stati e guerra civile. Ma dove allentano o addirittura mettono in discussione queste essenziali distinzioni, spianano la strada a un tipo di guerra che distrugge scientemente quelle chiare separazioni. Ecco allora che qualche norma di compromesso cautamente stilizzata appare soltanto un esile ponticello sopra un abisso che cela in sé un profondo mutamento, gravido di conseguenze, dei concetti di guerra, nemico e partigiano.

Dopo la prima guerra mondiale i vincitori sciolsero lo Stato Maggiore tedesco e ne proibirono la ricostruzione, sotto qualsivoglia forma, con l'articolo 160 del Trattato di Versailles del 28 giugno 1919. dal punto di vista storico e del diritto internazionale, non manca di logica il fatto che i vincitori della seconda guerra mondiale, e in primo luogo Stati Uniti e Unione Sovietica, dopo aver messo al bando la guerra-duello del diritto internazionale europeo classico proscrivessero e annientassero, dopo la comune vittoria sulla Germania, anche lo Stato prussiano.

Il concetto classico del Politico stabilito nel XVIII e nel XIX secolo poggiava sullo Stato inteso secondo il diritto internazionale europeo, e aveva reso la guerra del diritto internazionale classico un puro conflitto interstauale all'interno di una ben definita cornice giuridica. Nel XX secolo questa guerra fra Stati, con le sue precise delimitazioni, viene eliminata e sostituita con la guerra rivoluzionaria dei “partiti”.

A paragone di una guerra dove l'inimicizia è totale, la guerra circoscritta del diritto internazionale europeo classico, che procede secondo regole riconosciute, non è molto più di un duello fra due cavalieri in grado di darsi soddisfazione […]. La guerra dell'inimicizia assoluta non conosce alcuna limitazione. Trova il suo senso e la sua legittimità proprio nella volontà di arrivare alle estreme conseguenze. La sola questione è dunque questa: esiste un nemico assoluto, e chi è in concreto? Per Lenin la risposta era immediata, e la sua superiorità su tutti gli altri socialisti e marxisti deriva proprio dall'aver preso sul serio il concetto di inimicizia totale. Il suo concreto nemico assoluto era l'avversario di classe, il borghese, il capitalista occidentale e il di lui ordine sociale in ogni paese ove fosse al potere.

Stalin riuscì a combinare il forte potenziale della resistenza nazionale e patriottica – vale a direla forza tellurica, essenzialmente difensiva, della lotto contro un invasore straniero – con l'aggressività della rivoluzione comunista mondiale. L'unione di queste due forze eterogenee è oggi alla base di ogni lotta partigiana in tutto il mondo.

I difensori autoctoni del suolo patrio, che morivano pro aris et focis, gli eroi nazionali e patriottici, che se ne andavano nelle foreste, tutto quanto di fronte a un'invasione straniera era reazione di una forza elementare, tellurica, è finito nel frattempo in mano a una direzione centrale internazionale e sovranazionale che fornisce aiuto e sostegno, ma soltanto in vista dei propri scopi – di natura ben diversa, caratterizzati da una aggressività su scala mondiale – e che, a seconda delle circostanze, protegge o pianta in asso. Il partigiano cessa così di essere una figura essenzialmente difensiva, per diventare uno strumento manipolato da un'aggressività che mira alla rivoluzione mondiale. Egli viene semplicemente mandato allo sbaraglio, e defraudato di tutto ciò per cui aveva intrapreso la lotta e in cui erano radicati il carattere tellurico e la legittimità della sua irregolarità partigiana.

Forse le cose cambieranno completamente quando lo Stato un giorno “morirà”. Per il momento la legalità resta l'inevitabile modo di funzionamento di ogni esercito statuale moderno. Il governo legale decide chi sia il nemico contro il quale l'esercito deve combattere. Chi non si vuole sottomettere alla scelta oeprata dal governo in carica, e rivendica la facoltà di decidere chi sia il nemico, rivendica una propria, nuova legalità.

Ogni guerra su due fronti solleva la questione su chi mai si debba considerare il vero nemico. Non è forse un segno di scissione l'avere più di un solo vero nemico? Il nemico è la messa in questione di noi come figure. Se la nostra figura è determinata con chiarezza, come si crea questa duplicità del nemico? Il nemico non è qualcosa che si debba eliminare per un qualsiasi motivo, o che si debba annientare per il suo disvalore. Il nemico si situa sul mio stesso piano. Per questa ragione mi devo scontrare con lui: per acquisire la mia misura, il mio limite, la mia figura.

Nella teoria della guerra si tratta sempre di distinguere esattamente l'inimicizia, che conferisce alla guerra il suo senso e il suo carattere. Ogni tentativo di limitare o ciscoscrivere la guerra deve essere sostenuto dalla convinzione che, relativamente al concetto di guerra, inimicizia è concetto primario, e che una distinzione fra diversi tipi di inimicizia precede quella fra diversi tipi di guerra. Altrimenti tutti gli sforzi per limitare o circoscrivere la guerra restano solo un gioco, che non resiste all'esplosione di una vera inimicizia.

Quando […] la teoria militare di un rivoluzionario di professione come Lenin distrusse ciecamente tutte le delimitazioni tradizionali della guerra, quest'ultima diventò guerra assoluta, e il partigiano si trasformò in portatore dell'inimicizia assoluta contro un nemico assoluto […]. È stata una grande disgrazia, perché con quelle limitazioni della guerra l'umanità europea era pervenuta a qualcosa di straordinario: la rinuncia alla criminalizzazione del nemico, e dunque la relativizzazione dell'inimicizia, la negazione dell'inimicizia assoluta. Ed è davvero qualcosa di straordinario, un segno di incredibile umanità, portare gli uomini a rinunciare alla discriminazione e alla diffamazione dei loro nemici. Proprio questo oggi pare rimesso in discussione dal partigiano.

L'essenza del Politico non è l'inimicizia pura e semplice, bensì la distinzione fra amico e nemico, e presuppone l'amico e il nemico.

Lo sviluppo tecnico-industriale ha […] potenziato le armi dell'uomo fino a farne mezzi di annientamento […]. Questi mezzi distruttivi assoluti richiedono un nemico assoluto, se non vogliono apparire disumani. Ma non sono i mezzi di annientamento che annientano, bensì gli uomini che, con questi mezzi, annientano altri uomini […]. L'estremo pericolo non risiede perciò neppure nell'esistenza dei mezzi di annientamento o in una premeditata malvagità dell'uomo. Risiede nella ineluttabilità di un obbligo morale. Gli uomini che adoperano simili mezzi contro altri uomini si vedono costretti ad annientare questi altri uomini […] anche moralmente. Devono bollare la parte avversa come criminale e disumana, come un disvalore assoluto. Altrimenti sarebbero essi stessi dei criminali e dei mostri. La logica di valore e disvalore dispiega tutta la sua devastatrice consequenzialità e costringe a creare sempre nuove e più profonde discriminazioni, criminalizzazioni e svalutazioni, fino all'annientamento di ogni vita indegna di esistere […]. L'inimicizia diventa così terribile che forse non è più nemmeno lecito parlare di nemico e inimicizia; entrambi questi concetti sono addirittura condannati e banditi formalmente prima che possa cominciare l'opera di annientamento. L'annientamento diventa quindi del tutto astratto e assoluto. Non si rivolge più contro un nemico, ma è ormai al servizio solo di una presunta affermazione oggettiva dei valori più alti – per i quali, notoriamente, nessun prezzo è troppo alto. Solo la sconfessione della vera inimicizia spiana la strada all'opera di annientamento di un'inimicizia assoluta.

La tirannia dei valori
Riflessioni di un giurista sulla filosofia dei valori
Die Tyrannei der Werte
Überlegungen eines Juristen zur Wert-Philosophie
, 1967
Edizione italiana: Adelphi, Milano 2008
Forsthoff faceva notare come nella dottrina dello Stato della monarchia assoluta la virtù avesse ancora un posto, mentre il sistema di legalità dello Stato di diritto borghese non sapeva più che cosa farsene di un termine e di un concetto come virtù. A mo' di sostituto si offriva il valore.

Una conversione in valori, una valorizzazione universale è oggi in atto in tutti gli ambiti della nostra esistenza sociale, e si manifesta persino nella lingua ufficiale delle sfere più alte.

Tutto ciò è plausibile finché si conserva la consapevolezza della specificità del concetto di valore e se ne cerca il significato concreto nella sua sfera originaria, dunque nel campo dell'economia […]. In Germania cent'anni di rapida industrializzazione hanno trasformato il valore in una categoria essenzialmente economica. Oggi per la coscienza comune il termine “valore” è talmente impregnato di senso economico e commerciale che non si può più tornare indietro, e meno che mai in un'epoca di progresso industriale, di ricchezza crescente e di redistribuzione permanente. Una dottrina scientifica dei valori rientra nelle scienze economiche. È qui che una logica del valore trova la sua collocazione. E nel diritto di indennizzo entra in azione. Il principio dell'indennizzo si basa, come afferma Lorenz von Stein, “sulla separazione tra bene e valore [...]”. L'economia, il mercato, la borsa, sono diventati in questo modo il terreno di tutto ciò che si definisce valore in senso specifico. Su questo terreno economico tutti i “valori”, per quanto alti ed extraeconomici, valgono solo come sovrastruttura, che viene compresa in base alla legge del suolo: superficies solo cedit [la superficie accede al suolo] […]. L'irresistibile economicizzazione non è solo una conseguenza, o solo un fenomeno concomitante di un capitalismo che ha trasformato tutto – anche il lavoro umano – in merce, valore e prezzo, e per il quale il denaro è “il valore universale, per sé costituito, di tutte le cose”, avendo esso “spogliato del [suo] valore peculiare” tutto il resto, il mondo dell'uomo e la natura.

Dal 1848 c'è una contemporaneità tanto singolare quanto evidente, una simultaneità, osmosi e simbiosi tra filosofia dei valori e filosofia della vita […]. Per ogni filosofia della vita la vita, se non proprio il valore supremo, è pur sempre un valore superiore […]. Le varie filosofie della vita si ritennero spesso un superamento del materialismo, o comunque si spacciarono volentieri per tali. Ciò non toglie che le loro valutazioni, valorizzazioni e dichiarazioni di non-valore sfociassero nella scolarizzazione generale, ottenendo solo di accelerare la tendenza a una scientificizzazione neutralizzante. Di fatto la conversione in valore non è altro che una trasposizione in un sistema di valori di posizione. Essa rende possibili continui cambiamenti di valore, sia dei sistemi di valore sia all'interno di uno stesso sistema di valori, mediante continui spostamenti nella scala dei valori. Non importa dunque che i valori religiosi, spirituali e morali vengano posti come valori superiori, e che i valori vitali – come li chiama Max Scheler – siano da considerarsi superiori solo rispetto ai valori materiali, mentre rispetto a ciò che attiene allo spirito occupano un posto inferiore. Il fatto decisivo è che tutti i valori, dal più alto al più basso, si collocano sui binari del valore. La posizione nella gerarchia e la sua determinazione sono di seconda importanza; la logica del valore funziona anzitutto a partire dal valore in sé, e solo secondariamente dal posto detenuto dal valore. Una volta inserito in un sistema di valori, anche il valore supremo si converte in un valore cui viene assegnato un posto nel sistema dei valori […]. Nessun sistema di valori può riconoscere un supervalore che non sia un valore. Rimane quindi solo il non-valore, che va escluso dal sistema di valori, poiché la negazione assoluta del non-valore è un valore positivo.

La dottrina puramente formale dei valori della filosofia neokantiana era troppo relativistica e soggettivistica per fornire ciò che si cercava, ovvero un sostituto scientifico per un diritto naturale che non presentava più alcuna legittimità. Un sostituto siffatto fu offerto in modo tanto più energico dall'etica materiale dei valori di matrice fenomenologica di Max Scheler.

Riguardo al nostro tema giuridico – reinterpretazione dei diritti fondamentali e della Costituzione come sistema di valori, “effetto su terzi” dei diritti fondamentali e conversione dell'attuazione della Costituzione in attuazione di valori –, si tratta della necessità di convertire l'attuazione della Costituzione da un'attuazione di norme e di decisioni a un'attuazione di valori.

Dobbiamo perciò tenere presente che la logica del valore degenera non appena abbandona l'ambito a lei pertinente dell'economico e della justitia commutativa per valorizzare e convertire in valori beni, interessi, scopi e idee differenti da quelli economici. Il valore superiore giustifica allora pretese imprevedibili e dichiarazioni di inferiorità; l'attuazione immediata dei valori distrugge l'attuazione giuridicamente assennata che ha luogo solo all'interno di ordinamenti concreti, in base a precisi regolamenti e chiare sentenze.

È un errore fatale credere che i beni e gli interessi, gli scopi e gli ideali che sono qui in questione potrebbero essere salvati, attraverso la loro valorizzazione, dalla avalutatività dell'atteggiamento tipico delle scienze naturali moderne. I valori e le teorie dei valori non sono in grado di creare legittimità; possono appunto sempre e solo valorizzare.

Ciò che accade è il tentativo di individuare una via d'uscita della situazione critica in cui la pretesa di scientificità delle scienze dello spirito era venuta a trovarsi a causa della pervasività dell'atteggiamento ispirato alle scienze della natura nell'Europa del XIX secolo. In altri termini, la filosofia dei valori è una reazione alla crisi nichilistica del XIX secolo. Ciò che vi è di nuovo è qualcosa di negativo […], uno specifico surplus di degrado, discriminazione e giustificazione di un annientamento.

L'aggressività (il “punto d'attacco”) contenuta nel pensare per valori tende per lo più a scemare nei giuristi che praticano teorie dei valori rigorosamente formali di ispirazione neokantiana. Anzi, l'accentuata soggettività e la relatività delle teorie puramente formali dei valori suscitano a prima vista addirittura l'apparenza di una tolleranza illimitata […]. Eppure, finché vige la logica del valore la sua aggressività immanente è solo spostata.

Il lupo che divora l'agnello attua la validità superiore del valore nutritivo di cui l'agnello per il lupo è “portatore” rispetto alla validità inferiore del valore vitale di cui lo stesso agnello è “portatore” rispetto al valore vitale del lupo. Nondimeno, il lupo non nega il valore nutritivo dell'agnello, né lo uccide soltanto per annientarlo. Solo il dichiarare l'agnello un non-valore assoluto gli fornirebbe l'interpretazione, secondo il sillogismo dei valori, per un annientamento altrimenti inspiegabile.

Una coerente “filosofia dei valori” della libertà non può accontentarsi di proclamare la libertà come valore supremo; deve capire soprattutto che per la filosofia dei valori non solo la libertà è il valore supremo, ma anche che la libertà dai valori è la libertà suprema.

Naturalmente anche prima della filosofia dei valori si è parlato di valori, e pure di non-valore. Ma per lo più si faceva una distinzione affermando: le cose hanno un valore, le persone hanno una dignità. Si riteneva indegno ridurre la dignità a valore. Oggi invece anche la dignità si trasforma in valore. Il che significa un vistoso innalzamento di rango del valore. Il valore si è per così dire rivalutato.

Bisogna considerare che il valore di cui parla la filosofia dei valori non deve avere un essere, bensì una validità. Il valore non è, ma vale [...]. Questo valere implica ovviamente […] un impulso tanto più forte alla realizzazione. Il valore aspira apertamente a essere posto in atto. Non è reale, ma è senza dubbio riferito alla realtà, e attende con impazienza di essere attuato ed eseguito.

La validità dei valori si basa su atti di posizione. Ma chi è, qui, che pone i valori? Le risposte più chiare e anche più aperte a questa domanda le troviamo in Max Weber: a porre i valori è quindi l'individuo umano nel suo totale libero arbitrio puramente soggettivo. Egli si sottrae così alla avalutatività assoluta del positivismo scientifico, contrapponendo a esso la sua visione del mondo libera, cioè soggettiva. La libertà puramente soggettiva della posizione dei valori conduce però a un eterno conflitto dei valori e delle visioni del mondo, una guerra di tutti contro tutti […]. Sono sempre i valori a fomentare le battaglie e a tener viva l'ostilità. Il fatto che i vecchi dèi siano disincantati e ridotti a meri valori dotati di validità rende spettrale la contesa e disperatamente aggressivi i contendenti. È questo l'incubo che la rappresentazione weberiana ha lasciato. Alcuni filosofi come Max Scheler e Nicolai Hartmann hanno cercato di sfuggire al soggettivismo delle valutazioni e di trovare una filosofia dei valori materiale e oggettiva.

Scheler ha creato una gerarchia dei valori che, dal basso verso l'alto, parte dall'utile per arrivare al sacro. Hartmann ha costruito il sistema oggettivo coerente di un mondo in cui al livello più basso dovrebbe porsi l'inorganico, a quello più alto lo spirituale. Ma i valori, ancorché possano essere ritenuti alti e sacri, in quanto valori valgono sempre solo per qualcosa o per qualcuno.

Nessuno può dunque sfuggire alla logica immanente del pensare per valori. Non importa che il valore sia soggettivo, formale o materiale: non appena appare, si attiva inevitabilmente uno specifico meccanismo mentale, connaturato a ogni pensare per valori. Il carattere specifico del valore risiede infatti nell'avere non già un essere, ma soltanto una validità. Ne consegue che la posizione non è nulla se non si impone; la validità deve essere continuamente attualizzata, cioè fatta valere, se non vuole dissolversi in mera parvenza. Chi dice valore vuole far valere e imporre. Le virtù si esercitano; le norme si applicano; gli ordini si eseguono; ma i valori vengono posti e imposti. Chi ne sostiene la validità deve farli valere. Chi dice che valgono senza che vi sia nessuno che li fa valere è un impostore.

Se qualcosa ha valore, e quanto ne ha, se qualcosa è un valore, e in quale misura, lo si può stabilire soltanto in base a un punto di osservazione o punto di vista già posto. La filosofia dei valori è una filosofia di “punti”, l'etica dei valori un'etica di “punti” […]. Non si tratta quindi né di idee né di categorie, né di principi né di premesse. Sono propriamente “punti”. Essi si collocano nel sistema di un puro prospettivismo, un sistema di relazioni. Ogni valore è quindi un valore di posizione. Anche il valore supremo […] ha proprio in quanto tale, in quanto valore supremo, solo il suo valore di posizione nel sistema dei valori.

Proprio qui dove il puntismo del pensare per valori balza agli occhi si manifesta con forza l'onestà intellettuale di Max Weber […]. Accanto a tutti i punti di vista, punti di osservazione e punti di fuga, egli ha chiamato apertamente per nome un punto particolare, e precisamente il punto cruciale: il “punto di attacco” [… della valutazione].

L'espressione “punto di attacco” svela la potenziale aggressività immanente a ogni posizione di valori. Espressioni come “punto di osservazione” o “punto di vista” sono forvianti e danno l'imnpressione di un relativismo, relazionismo e prospettivismo apparentemente illimitati, e con ciò di altrettanta tolleranza, legata a una sostanziale, benevola neutralità. Ma non appena si è consapevoli del fatto che qui sono in gioco anche punti di attacco, le illusioni neutralistiche cadono […]. L'immanente aggressività rimane il “fatale rovescio” dei valori. L'aggressività è connaturata alla struttura tetico-ponente del valore, e continua a essere prodotta dalla concreta attuazione del valore.

Per superare la teoria soggettiva dei valori e per garantire l'oggettività dei valori non basta occultare i soggetti e far tacere i portatori di valore, i cui interessi forniscono i punti di osservazione, i punti di vista e i punti di attacco del valutare. Nessuno può valutare senza svalutare, rivalutare e valorizzare. Chi pone i valori si è in tal modo già contrapposto ai non-valori. Non appena l'imporre e il far valere diventano davvero una cosa serie, la tolleranza e la neutralità illimitate dei punti di vista e dei punti di osservazione intercambiabili a piacere si ribaltano subito nel loro opposto, cioè in ostilità. L'anelito del valore alla vallidità è irresistibile, e il conflitto tra valutatori, svalutatori, rivalutatori e valorizzatori è inevitabile.

Secondo la logica del valore deve sempre valere il principio che per il valore supremo il prezzo supremo non è mai troppo alto, e va pagato […]. Prima, quando la dignità non era ancora un valore ma qualcosa di essenzialmente diverso, il fine non poteva giustificare il mezzo. Anzi la massima secondo cui il fine giustifica i mezzi era considerata riprovevole. Nella gerarchia dei valori vigono invece altre relazioni, che giustificano il fatto che il valore annienti il non-valore, e che il valore superiore tratti come abietto il valore inferiore.

La teoria dei valori festeggia i suoi autentici trionfi nel dibattito sulla questione della guerra giusta […]. Ogni riguardo nei confronti del nemico viene a cadere, anzi diventa un non-valore non appena la battaglia contro il nemico diventa una battaglia per i valori supremi. Il non-valore non gode di alcun diritto di fronte al valore, e quando si tratta di imporre il valore supremo nessun prezzo è troppo alto. Sulla scena perciò restano solo l'annientatore e l'annientato. Tutte le categorie del diritto bellico classico dello jus publicum europaeum – giusto nemico, giusto motivo della guerra, giusta misura dei mezzi e adeguatezza della condotta (debitus modus) – cadono irrimediabilmente vittime di questa mancanza di valori. L'impulso a imporre i valori diventa qui una costrizione all'attuazione immediata dei valori stessi.

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Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità
Politische Theologie
Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität
, 1922
Edizione italiana: In, Le categorie del politico , il Mulino, Bologna 2019
Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione.

Il sovrano crea e garantisce la situazione come un tutto nella sua totalità. Egli ha il monopolio della decisione ultima. In ciò sta l’essenza della sovranità statale, che quindi propriamente non deve essere definita giuridicamente come monopolio della sanzione o del potere, ma come monopolio della decisione […]. Il caso d’eccezione rende palese nel modo più chiaro l’essenza dell’autorità statale. Qui la decisione si distingue dalla norma giuridica, e (per formulare un paradosso) l’autorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto.

Sarebbe razionalismo conseguente dire che l’eccezione non dimostra nulla e che solo la normalità può essere oggetto di interesse scientifico. L’eccezione confonde l’unità e l’ordine dello schema razionalistico. Nella dottrina dello Stato positivistica si incontrano spesso argomenti del genere […]. Solo una filosofia della vita concreta non può ritrarsi davanti all’eccezione e al caso estremo, anzi deve interessarsi ad esso al più alto grado. Per essa l’eccezione può essere più importante della regola […]. L’eccezione è più interessante del caso normale. Quest’ultimo non prova nulla, l’eccezione prova tutto; non solo essa conferma la regola: la regola stessa vive solo dell’eccezione. Nell’eccezione, la forza della vita reale rompe la crosta di una meccanica irrigidita nella ripetizione.

Che l’idea giuridica non possa mutare da sé sola si ricava dal fatto che essa non dice nulla su chi la debba usare. In ogni trasformazione è presente una auctoritatis interpositio. Non è possibile ricavare dalla semplice qualità giuridica di una massima una esatta determinazione di quale persona individuare o quale concreta istanza possa pretendere ad una autorità del genere […]. Il fatto che la decisione sia stata presa nel luogo opportuno rende la decisione stessa relativamente – ma in certe circostanze anche assolutamente – indipendente dalla giustezza del suo contenuto e rende superflua ogni ulteriore discussione in merito, se pur vi siano ancora dubbi. La decisione diventa in quel momento indipendente dal suo fondamento ed acquista valore indipendente.

Dal punto di vista del contenuto della norma che sta a fondamento ogni momento decisionale costitutivo specifico è qualcosa di nuovo e di esterno. In senso normativo, la decisione è nata da un nulla. La forza giuridica della decisione è qualcosa di diverso dal risultato del suo fondamento. Essa non si spiega con l’aiuto di una norma, ma viceversa è solo grazie ad un punto di riferimento che si stabilisce che cosa sia una norma e che cosa sia la concretezza normativa.

La norma giuridica, in quanto norma di decisione dice solo come si deve decidere non anche chi deve decidere […]. Il problema dunque è quello della competenza; un problema che non si può porre, sé tanto meno risolvere, in base alla qualità giuridica del contenuto della norma. Risolvere i problemi di competenza rimandando al dato materiale, significa burlarsi della gente.

Per la realtà della vita giuridica ciò che importa dunque è chi decide. Oltre al problema della giustezza del contenuto, vi è quello della competenza. Il problema della forma giuridica consiste nel contrasto fra soggetto e contenuto della decisione e nel significato autonomo del soggetto.

Lo stato di eccezione ha per la giurisprudenza un significato analogo al miracolo per la teologia […]. Infatti l’idea del moderno Stato di diritto si realizza con il deismo, con una teologia e una metafisica che esclude il miracolo dal mondo e che elimina la violazione delle leggi di natura, contenuta nel concetto di miracolo e produttiva, attraverso un intervento diretto, di un’eccezione, allo stesso modo in cui esclude l’intervento diretto del sovrano sull’ordinamento giuridico vigente. Il razionalismo dell’illuminismo ripudiò il caso di eccezione in ogni sua forma.

La teologia politica dell’epoca della Restaurazione offre un’illustrazione illuminante all’affermazione che Max Weber ha compiuto nella sua critica della filosofia del diritto di Stammler: che cioè ad una filosofia della storia radicalmente materialista si possa contrapporre irrefutabilmente una filosofia della storia altrettanto radicalmente spiritualista. Infatti gli autori controrivoluzionari spiegarono i mutamenti politici in base ad un mutamento della concezione del mondo e ricondussero la rivoluzione francese alla filosofia dell’illuminismo. E fu solo in chiara antitesi che viceversa i rivoluzionari radicali imputarono il mutamento del pensiero ai mutamenti delle condizioni politiche e sociali. Già negli anni venti del XIX secolo era un dogma diffuso in Europa occidentale e soprattutto in Francia che i mutamenti religiosi, filosofici, artistici e letterari fossero strettamente legati alle condizioni politiche e sociali. Questo nesso si è radicalizzato ed ha assunto seria dimensione sistematica nell’elemento economico della filosofia marxista della storia, dove anche per i mutamenti politici e sociali venne ricercato un punto di riferimento, che venne individuato nell’economia. Una tale spiegazione materialistica rende impossibile una considerazione isolata della conseguenza ideologica, poiché essa vede dappertutto solo “riflessi”, “rispecchiamenti”, “travestimenti” dei rapporti economici, e quindi opera conseguentemente con spiegazioni ed interpretazioni psicologiche e, quanto meno nella sua accezione volgare, con sospetti continui. Proprio a causa del suo massiccio razionalismo essa può però facilmente rovesciarsi in una concezione irrazionalistica della storia, poiché intende ogni pensiero come funzione ed emanazione di processi vitali. In questo modo il socialismo anarchico-sindacalista di Georges Sorel è stato in grado di mettere insieme la filosofia vitalista di Bergson con la concezione economica della storia di Marx.

La borghesia liberale vuole un Dio, che però non deve poter divenire attivo; essa vuole un monarca, che però deve essere privo di potere, essa pretende libertà e uguaglianza, e tuttavia anche la limitazione del diritto di voto alle classi possidenti, per assicurare all’istruzione e alla ricchezza il necessario influsso sulla legislazione, come se istruzione e ricchezza dessero il diritto di opprimere gli uomini poveri e non istruiti; essa elimina l’aristocrazia del sangue e della famiglia e lascia però sussistere l’impudente signoria dell’aristocrazia del denaro, che è la forma più ordinaria e stupida di aristocrazia; essa non vuole né la sovranità del re né quella del popolo.

L’odio contro la monarchia e l’aristocrazia spinge il borghese liberale a sinistra; il timore per la sua proprietà minacciata dalla democrazia e dal socialismo radicale lo spinge di nuovo a destra, verso una monarchia forte il cui apparato militare lo possa difendere; così egli oscilla tra i suoi due nemici con l’intento di ingannarli entrambi.

Anche i postulati economici, la libertà di commercio e di produzione sono, per un’indagine seria di storia delle idee, solo derivati di un nucleo metafisico.

Oggi non vi è nulla di più moderno della lotta contro la politica. Finanzieri americani, tecnici industriali, socialisti marxisti e rivoluzionari anarco-sindacalisti si uniscono nel richiedere che venga messo da parte il dominio non obiettivo della politica sulla obiettività della vita economica. Ormai devono esistere solo compiti tecnico-organizzativi e sociologico-economici, ma non problemi politici. Il tipo oggi dominante di pensiero tecnico-economico non consente più nemmeno di percepire un’idea politica. Lo stato moderno sembra essere diventato davvero ciò che Max Weber vide in esso: una grande fabbrica.

Terra e Mare
Una riflessione sulla storia del mondo
Land und Meer
Eine weltgeschichtliche Betrachtung
, 1942
Edizione italiana: Adelphi, Milano, 2002.

L'uomo è un essere di terra che calca il suolo. Staziona, cammina e si muove sulla terra dal solido fondamento. Questa è la sua posizione e la sua base; in tal modo egli ricava il suo punto di vista. Ciò determina le sue impressioni e il suo modo di vedere il mondo. Egli non solo acquisisce il suo orizzonte ma anche la forma del suo procedere e dei suoi movimenti, la sua figura, in quanto essere vivente, nato e muoventesi sulla terra […]. La terra è il suo materno fondamento, esso è, pertanto, un figlio della terra. Nel prossimo egli vede fratelli terreni e cittadini della terra. Dei tradizionali quattro elementi — terra, acqua, fuoco ed aria — è la terra l'elemento che è destinato all'uomo e che più fortemente lo determina. L'idea che l'esistenza umana possa venir caratterizzata da un altro dei quattro elementi altrettanto decisamente come da parte della terra sembra, a prima vista, solo una possibilità fantastica. L'uomo non è un pesce né un uccello e ancor meno una creatura di fuoco, sempre ammesso che ce ne siano. Sono dunque l'esistenza e l'essenza dell'uomo nel loro nucleo puramente terranee e solamente riferite alla terra? E sono veramente gli altri elementi solo cose di secondo rango che si aggiungono alla terra? Non è così semplice. La questione se sia anche possibile un'altra esistenza umana diversa da una determinata puramente in senso terrestre è più evidente di quanto noi pensiamo […]. Importanti ricercatori hanno scoperto che accanto a popoli autoctoni cioè terrestri, sono esistiti anche popoli autotalassici cioè determinati completamente dal mare, che non avevano mai messo piede sulla terraferma e in essa scorgevano semplicemente il confine della loro pura esistenza marittima […]. Le nostre rappresentazioni di spazio e tempo sviluppatesi a partire dalla terraferma risultano loro altrettanto estranee e incomprensibili quanto, all'inverso, a noi uomini di terra, il mondo di quegli uomini puramente marini rivela un altro mondo a stento concepibile. Si tratta dunque di una questione aperta: qual è il nostro elemento? Siamo figli della terra o del mare? A questa domanda non si può rispondere con un semplice aut-aut. Miti antichissimi, moderne ipotesi scientifiche e risultati della ricerca protostorica lasciano aperte entrambe le possibilità […]. La storia del mondo è storia di lotta di potenze marinare contro potenze di terra e di potenze di terra contro potenze marinare.

'Schiume di mare' d'ogni tipo, pirati, corsari, avventurieri del commercio marittimo, formano, accanto ai cacciatori di balena e ai navigatori a vela, la colonna dei pionieri della elementare svolta verso il mare che si realizzò nel XVI e XVII secolo […]. I corsari del XVI e del XVII secolo […] ebbero un grande ruolo storico. Essi svolsero la funzione di attivi combattenti nel grande scontro sul piano mondiale tra l'Inghilterra e la Spagna. Dai loro nemici, gli spagnoli, se catturati, venivano bollati come delinquenti comuni, assassini a scopo di rapina, e impiccati. Anche i loro governi li lasciarono cinicamente cadere quando' diventavano scomodi o se lo richiedevano considerazioni di politica estera. Spesso era veramente solo un caso se un pirata otteneva un'alta carica quale dignitario del re o finiva sul patibolo condannato a morte come pirata [...]. Nei 45 anni del suo regno (Elisabetta I° Tudor, 1558-1603) l'Inghilterra divenne una nazione ricca, cosa che prima non era stata. In precedenza gli Inglesi allevavano pecore e vendevano la lana alle Fiandre, poi invece affluirono verso l'isola da tutti i mari i favolosi bottini dei corsari e dei pirati inglesi. La regina si rallegrò di questi tesori e ci si arricchì. In questo senso essa con tutta la sua verginità non fece niente di diverso da quanto numerosi inglesi, nobili e borghesi, uomini e donne della sua epoca fecero: parteciparono tutti al grande affare del bottino. Centinaia e migliaia di uomini e donne inglesi si trasformarono allora in « capitalisti corsari», in corsaìrs capitalisis. Anche questo fa parte della svolta elementare dalla terra al mare della quale qui si tratta […]. Ancora nel quattordicesimo anno del regno della regina Elisabetta la maggior parte del naviglio inglese era in viaggio per spedizioni di rapina o per affari illegali e nel complesso appena poco più di 50.000 tonnellate di stazza erano impiegate per il traffico commerciale legale.

Ciò non può essere spiegato mediante raffronti generali con precedenti esempi storici di dominio marinaro, neppure tracciando paralleli con Atene o Cartagine, Roma, Bisanzio o Venezia. Qui siamo di fronte ad un caso nella sua natura unico. La sua specificità e incomparabilità consistono nel fatto che l'Inghilterra, in un momento storico e in un modo completamente diverso rispetto alle precedenti potenze marinare, ha compiuto una trasformazione elementare, ha veramente spostato la sua esistenza dalla terra all'elemento del mare. In tal modo non ha vinto solo molte battaglie sul mare e molte guerre ma qualcosa di completamente diverso e infinitamente superiore, e cioè ha compiuto una rivoluzione e, propriamente, una rivoluzione del tipo più grande, una planetaria rivoluzione spaziale [...]. Si potrebbero trovare ancora ulteriori esempi storici ma tutti impallidiscono di fronte alla più profonda, e ricca di conseguenze, trasformazione della configurazione planetaria di tutta la storia del mondo a noi nota. Essa avvenne nei secoli XVI e XVII, nell'epoca delle scoperte dell'America e della prima circumnavigazione della terra. Allora sorse, nel senso più audace del termine, un nuovo mondo e la coscienza complessiva, prima dei popoli dell'Europa centrale e occidentale, in seguito quella di tutta l'umanità, mutò radicalmente. Questa è la prima vera e propria rivoluzione spaziale nel senso pieno del termine che abbraccia terra e mondo. Essa non è paragonabile a nessun'altra. Non fu solo una estensione quantitativamente spaziale di particolare significato dell'orizzonte geografico, quella che si verificò da sé a seguito della scoperta di nuovi continenti e di nuovi mari. Piuttosto cambiò, per la coscienza complessiva degli uomini, con l'eliminazione totale delle rappresentazioni tradizionali, antiche e medioevali, l'immagine globale del nostro pianeta e, oltre a ciò, la rappresentazione astronomica complessiva di tutto l'universo. Per la prima volta nella sua storia, l'uomo prese nella sua mano tutto il reale globo come una sfera.

Gli uomini furono allora, dunque, in grado di rappresentarsi uno spazio vuoto, cosa che in precedenza non avevano potuto, anche se alcuni filosofi avevano già parlato di «vuoto». Prima gli uomini provavano angoscia davanti al vuoto, cioè quello che si chiama horror pacai. Ora, dimenticando questa angoscia, non trovarono alla fin fine nulla di strano nel fatto che essi e il loro mondo esistessero nel vuoto. Gli scrittori dell'Illuminismo nel XVIII secolo, Voltaire in testa, provarono persino un sentimento di orgoglio di fronte a tale rappresentazione scientificamente dimostrabile, di un mondo in un infinito spazio vuoto. Ma prova però per una volta a rappresentarti veramente uno spazio veramente vuoto. Non solo uno spazio vuoto d'aria ma anche totalmente privo della materia più minuta e sublime: prova dunque, una volta, nella tua immaginazione a distinguere veramente spazio e materia, a separare l'uno dall'altra e a pensare l'uno senza l'altra. Puoi altrettanto bene pensare il nulla assoluto. Gli illuministi hanno molto riso di quel horror vacui. Ma forse era solamente il comprensibile brivido davanti al nulla e al vuoto della morte, di fronte ad una rappresentazione nichilistica e di fronte al nichilismo in generale. Una simile trasformazione, qual è quella contenuta nell'idea di un infinito spazio vuoto non può essere soltanto spiegata come conseguenza di una semplice estensione geografica della terra conosciuta. Essa è talmente fondamentale e rivoluzionaria che altrettanto bene si potrebbe, al contrario, sostenere che la scoperta di nuovi continenti e la circumnavigazione della terra siano solo modi di venire alla luce e conseguenze di mutamenti che avvengono in una dimensione più profonda. Solo per questo lo sbarco su un'isola sconosciuta poté aprire tutta un'epoca di scoperte.

Per una rivoluzione spaziale è necessario qualcosa di più che lo sbarco in una località fino ad allora sconosciuta. È necessario un mutamento dei concetti di spazio comprendente tutti i gradi e i campi dell'esistenza umana. La gigantesca svolta epocale del XVI e XVII secolo ci rivela ciò che questo significhi. In questi secoli di un'epoca di svolta, l'umanità europea ha contemporaneamente affermato un nuovo concetto di spazio in tutti i campi del suo spirito creativo. La pittura del Rinascimento superò lo spazio della pittura gotica medioevale. I pittori collocarono gli uomini e le cose da essi dipinti in uno spazio che, prospetticamente, produsse una profondità vuota. Gli uomini e le cose stanno e si muovono ora in uno spazio […]. La musica ricavò le sue armonie e melodie dalle antiche tonalità e le pose nello spazio acustico del nostro cosiddetto sistema tonale. Teatri ed opere fecero muovere i loro personaggi nella vuota profondità dello spazio prospettico del palcoscenico separato da un sipario dalla sala. Tutte le correnti spirituali di questi due secoli, Rinascimento, Umanesimo, Riforma, Controriforma e Barocco contribuirono, quindi, alla totalità di questa rivoluzione spaziale. Non è esagerato sostenere che tutti gli ambiti vitali, tutte le forme d'esistenza, tutte le specie della umana forza creativa, arte, scienza e tecnica furono partecipi del nuovo concetto di spazio.

Ogni ordinamento fondamentale è un ordinamento spaziale. Si definisce una costituzione di un paese o di un continente come il suo ordinamento fondamentale, il suo Nomos. Ora il vero e proprio ordinamento fondamentale si basa, nel suo nucleo essenziale, su determinati limiti e delimitazioni spaziali, su determinate misure e su una determinata distribuzione della terra. All'inizio di ogni grande epoca c’è, pertanto, una grande appropriazione di territorio. In particolare ogni rilevante mutamento e ridefinizione della immagine del mondo sono connessi a mutamenti geopolitici e ad una nuova divisione della terra, ad una nuova appropriazione di territorio.

La terraferma appartiene ora ad un pugno di Stati sovrani mentre il mare non appartiene a nessuno o a tutti o, in verità, solo ad uno: all'Inghilterra. L'ordinamento della terraferma consiste nella divisione in territori statali: l'alto mare è invece libero, cioè non appartiene ad uno Stato e non è sottomesso a nessuna sovranità territoriale statale. Questi sono i fondamentali dati di fatto specificamente spaziali dai quali si è sviluppato il diritto internazionale cristiano-europeo degli ultimi trecento anni. Questa la legge fondamentale, il Nomos della terra in quest'epoca. Solo alla luce di questo dato di fatto originario dell'appropriazione inglese del mare e della separazione di terra e mare acquistano il loro senso vero numerosi modi di dire e frasi spesso citate. Così, ad esempio, il detto di Sir Walter Raleigh: «Chi domina il mare domina il commercio del mondo e a chi domina il commercio del mondo appartengono tutti i tesori del mondo e il mondo stesso». O: «Tutto il commercio è commercio mondiale. Ogni commercio mondiale è un commercio marittimo». In questo si legano, al culmine della potenza marittima e mondiale inglese, gli slogans della libertà: «Qualsiasi commercio mondiale è libero commercio» [...] Ma come conseguenza della appropriazione inglese del mare tanto il popolo di questa nazione quanto quelli che sono nella scia delle sue idee ci hanno fatto l'abitudine. L'idea che una potenza di terra possa esercitare un potere mondiale che comprenda tutto il globo terrestre, è, secondo la loro visione del mondo, inaudita e insopportabile. Diverso è il caso di un potere mondiale costruito su una esistenza marittima separatasi dalla terra e abbracciarne tutti gli oceani del mondo. Una piccola isola al confine nord-occidentale d'Europa si era trasformata in centro di un impero mondiale distaccandosi dalla terraferma e decidendosi per il mare. In una esistenza completamente marittima essa trovò i mezzi di un dominio mondiale esteso su tutta la terra […]. Dopo che la separazione di terra e mare e il contrasto dei due elementi erano divenuti la legge fondamentale del pianeta, si levò su questa base una possente impalcatura di dottrine, princìpi dimostrativi e sistemi scientifici con i quali gli uomini si resero conto della saggezza e della ragionevolezza di questo stato di fatto senza tener d'occhio il dato originario dell'appropriazione inglese del mare e la sua determinatezza storica. Famosi studiosi dell'economia politica, giuristi e filosofi elaborarono questi sistemi che alla maggior parte dei nostri bisavoli sembrarono molto convincenti. Essi non furono alla fine più in grado di concepire una diversa scienza economica e un altro diritto internazionale. In questo puoi intravvedere come il grande Leviatano abbia potere anche sullo spirito e l'animo umano. Questo è ciò che più sbalordisce del suo dominio.

Ma se è così, allora viene anche a cadere la separazione di mare e terra sulla quale fu costruito il legame, sino ad oggi esistito, di dominio del mare e dominio del mondo. Viene meno il fondamento dell'appropriazione inglese del mare e, in tal modo, il Nomos della terra fino ad oggi valido. Al suo posto cresce inarrestabile e irresistibile il nuovo Nomos del nostro pianeta. Lo evocano le nuove relazioni dell'uomo con gli antichi e i nuovi elementi, e lo impongono a forza le mutate dimensioni e i nuovi rapporti dell'esistenza umana. Molti vi vedranno solo morte e distruzione. Alcuni crederanno di vivere la fine del mondo. In realtà stiamo solo vivendo la fine del rapporto, sin ad oggi esistito, tra terra e mare. Ma l'angoscia umana di fronte al nuovo è altrettanto grande quanto quella davanti al vuoto anche se il nuovo è superamento del vuoto. Per questo molti vedono solo insensato disordine dove in realtà un nuovo senso è in lotta per il suo ordinamento. L'antico Nomos viene certamente meno e con esso un sistema complessivo di misure, norme e rapporti che ci sono stati trasmessi. Ma ciò che avanza non è per questo, però, solamente mancanza di misura o un niente nemico del Nomos. Anche nella lotta accanita tra forze antiche e nuove sorgono giuste misure e si plasmano sensate proporzioni. Anche qui ci sono dèi e governano, grande è la loro misura.

Appropriazione / Divisione / Produzione
Un tentativo di fissare correttamente i fondamenti di ogni ordinamento economico-sociale a partire dal nomos
Nehmen / Teilen / Weiden
Ein Versuch, die Grundfragen jeder Sozial- und Wirtschaftsordnung vom NOMOS her richtig zu stellen
, 1953
Edizione italiana: In, Le categorie del politico , il Mulino, Bologna 2019

Il sostantivo greco nomos deriva dal vero greco nemein […]. Nemein significa in primo luogo prendere / conquistare (Nehmen) […]. Così come la relazione linguistica dei termini greci legein-logos si traduce in tedesco nella relazione parlare-lingua (Sprechen-Sprache), analogamente la relazione linguistica dei termini greci nemein-nomos conduce, in tedesco, alla relazione prendere-appropriazione (Nehmen-Nahme). Nomos quindi significa prima di tutto l’appropriazione (Nahme). Nemein significa, in secondo luogo, spartire / dividere (Teilen). Il sostantivo nomos significa, quindi, in seconda istanza, l’azione e il processo del dividere e del distribuire, un giudizio (Ur-Teil) e il suo risultato.

Nomos è dunque, in secondo luogo, diritto nel senso della parte che ciascuno ha, il suum cuique. In termini astratti: nomos è il diritto e la proprietà, cioè la parte di ciascuno ai beni della vita.

Nemein significa in terzo luogo coltivare / produrre (Weiden). È questo il lavoro produttivo che normalmente è fondato sulla base della proprietà […]. Questo terzo significato di nomos acquista il suo mutevole contenuto dal tipo e dal modo di produzione ed elaborazione dei beni.

Ciascuno di questi tre processi – prendere, dividere, elaborare – appartiene completamente all’essenza di ciò che finora, nella storia umana, è apparso come ordinamento giuridico e sociale. In ogni stadio della vita associativa, in ogni ordinamento economico e di lavoro, in ogni settore della storia del diritto, finora, in un modo o nell’altro, si è preso, diviso e prodotto.

Ma il problema maggiore consiste nell’ordine di successione di questi processi […]. L’ordine di successione dei tre momenti e la loro valutazione muta a seconda della situazione storica generale, dei metodi di produzione e di distribuzione dei beni e anche a seconda del quadro che gli uomini si fanno di se stessi, del loro destino e della loro condizione storica.

Fino alla rivoluzione industriale del XVIII secolo in Europa, l’ordine e la successione dei tre momenti riposava unicamente sul fatto che qualsiasi appropriazione era riconosciuta come indispensabile premessa e fondamento per la successiva divisione e produzione. Perciò per interi millenni della storia e della coscienza umana rimase fermo l’ordine di successione tipico. La terra, il fondo e il campo, era il primo presupposto di ogni economia e di ogni diritto ulteriore […]. All’inizio sta dunque [...] l’appropriazione della terra. Solo su di essa si compie poi la divisione e dopo questa l’ulteriore trasformazione.

La storia dei popoli, con le loro migrazioni, colonizzazioni e conquiste è una storia di appropriazione della terra. Quest’ultima è appropriazione di terra libera, cioè di suolo sino a quel momento privo di padrone, oppure conquista di terra nemica, sottratta al precedente proprietario in virtù del titolo giuridico della guerra esterna oppure redistribuita coi metodi del bando, della privazione dei diritti e della spoliazione per cause politiche interne. In ogni caso sempre l’appropriazione di terra è l’ultimo titolo giuridico per tutte le divisioni e distribuzioni successive e quindi per ogni successiva produzione […]. Tutte le appropriazioni di terra più note e famose della storia, tutte le grandi conquiste che si sono compiute con le guerre e le occupazioni, con le colonizzazioni, le migrazioni di popoli e le scoperte geografiche, confermano la precedenza fondamentale della appropriazione nei confronti della divisione e della produzione.

Prima che ciò che è stato acquisito per mezzo di conquista, scoperta, espropriazione o in qualsiasi altro modo, possa essere diviso, esso deve venire contato e pesato, secondo la successione primordiale: misurato/pesato/diviso.

Che la divisione e la produzione dovessero essere precedute dall’espansione coloniale, cioè dalla appropriazione e in particolare dalla appropriazione di terra era un ordine di successione che doveva apparire in se stesso, a un socialista come Lenin, medievale, per non dire atavico, reazionario, contrario al progresso e alla fine disumano […]. Questo è il punto in cui il socialismo si incontra con l’economia classica e il suo liberalismo […]. Progresso e libertà economica consistono nel fatto che le forze produttive divengono libere e in tal modo si compie un aumento tale della produzione e della massa di beni di consumo che l’appropriazione ha termine e nello stesso tempo la divisione non costituisce più un problema autonomo. Il progresso della tecnica conduce chiaramente a uno sterminato aumento della produzione. Ma se si dispone del sufficiente o addirittura di più del sufficiente, in tal caso appare come atavismo e come ricaduta nel diritto primordiale di preda, proprio di un’età di miseria, scorgere nella appropriazione il primo fondamentale presupposto dell’ordinamento economico e sociale. Il livello di vita diventa sempre più alto, la divisione diventa sempre più facile, sempre più innocua, e l’appropriazione alla fine è non solo immorale, ma anche irrazionale dal punto di vista economico e quindi insensata. Il liberalismo è una dottrina della libertà, della libertà di produzione economica, della libertà di mercato e soprattutto della regina delle libertà economiche: della libertà di consumo.

Proprio per il fatto di sollevare in modo tanto diretto e nella sua interezza il problema dell’ordinamento sociale, come problema di divisione e di distribuzione, il socialismo urta di nuovo contro l’antica questione dell’ordine di successione e del significato attribuito alle tre fasi originarie della vita associata e dell’attività umana. Neppure il socialismo può sottrarsi al problema di fondo del prendere, dividere e produrre e alla problematica del loro ordine di successione.

Il nostro discorso […] riguarda […] la coesistenza, la successione e la valutazione alternata delle categorie fondamentali del prendere, dividere e produrre che sono contenute in ogni nomos concreto e ineriscono in modo latente, seppure con diverso peso e secondo un ordine di successione diverso, a tutti sistemi giuridici, economici e sociali per poi divenire di nuovo sempre più virulenti a causa di qualche improvviso mutamento. Il problema scientifico che stiamo inseguendo diventa ancor più chiaro se riconduciamo alle nostre tre categorie del nomos anche la questione attuale, e comprensiva di tutto il resto, che sorge oggi di fronte a qualsiasi considerazione di scienza del diritto: la questione cioè della situazione attuale dell’unità del mondo. È vero che gli uomini hanno oggi “preso” la loro terra a tal punto come unità, che di fatto non resta più nulla di cui appropriarsi? È vero che l’appropriazione ha oggi cessato di esistere e che vi è ormai solo divisione e distribuzione? Oppure forse esiste soltanto la produzione? E inoltre ci chiediamo: chi è l’unico grande appropriatore, questo unico, grande divisore e distributore del nostro pianeta, il pilota e pianificatore della produzione unitaria del mondo?

La divisione e la distribuzione, cioè il suum cuique, presuppone l’appropriazione della massa da distribuire, cioè una occupatio o appropriatio primaeva. La continuità di una costituzione è riconoscibile fintantoché permane riconoscibile e riconosciuto il rimando a questa prima appropriazione […]. La storia universale è una storia del progresso – o forse anche soltanto del mutamento – nei mezzi e nei metodi dell’appropriazione: dalla occupazione della terra dei tempi nomadi e agrio-feudali alla conquista dei mari del XVI e XVII secolo, fino alla appropriazione industriale dell’epoca tecnico-industriale e alla sua differenziazione fra Paesi sviluppati e non-sviluppati, per finire all’appropriazione dell’aria e dello spazio dei nostri giorni.

Allorché la più importante funzione dello Stato viene a consistere nella distribuzione o redistribuzione del prodotto sociale – questo è il caso dei Paesi industrializzati in cui si è assestato lo Stato amministrativo che provvede all’assistenza delle masse – prima di poter distribuire o redistribuire il prodotto sociale, lo Stato deve appropriarsene, sia attraverso imposte o contributi, sia mediante la distribuzione dei posti di lavoro, sia con la svalutazione o con altri strumenti diretti e indiretti. In ogni caso le posizioni di distribuzione o redistribuzione sono pure posizioni politiche di potere che vengono dapprima prese e poi distribuite. Neppure qui è dunque venuto meno il problema dell’appropriazione.

In un saggio del 18 gennaio 1957, Alexandre Kojève coniò, con riferimento al nuovo Nomos der Erde, l’espressione “capitalismo distributore”. Egli intendeva così dire che il capitalismo moderno, tendenzialmente illuminato, che è intento all’aumento della forza d’acquisto dei lavoratori e allo sviluppo industriale dei Paesi sottosviluppati, significa ormai qualcosa di sostanzialmente diverso dal capitalismo solo appropriatore a cui si riferiva Marx. Bisogna però ricordare a Kojève che non può esservi nessun uomo capace di dare ciò che, in un modo o nell’altro, non abbia preso. Solo un Dio che crei il mondo dal nulla può dare senza prendere, e anch’egli solo nell’ambito del mondo da lui creato a partire da quel nulla.

Teoria del partigiano
Integrazione al concetto del Politico
Theorie des Partisanen
Zwischenbemerkung zum Begriff des Politischen
, 1963
Edizione italiana: Adelphi, Milano, 2005

Quando mi capita di parlare di teorie moderne sul partigiano devo sottolineare, a scanso di equivoci, che in realtà non ne esistono assolutamente di antiche, in contrasto con quelle moderne. Il diritto di guerra classico proprio del diritto internazionale europeo quale è andato formulandosi finora, non prevede la figura del partigiano intesa in senso moderno […]. Finché la guerra conservava ancora qualcosa dell'immagine di duello aperto e cavalleresco, non poteva essere altrimenti.

Il partigiano moderno non si aspetta dal nemico né diritto né pietà. Egli si è posto di fuori dell'inimicizia convenzionale della guerra controllata e corcoscritta, trasferendosi in un'altra dimensione: quella della vera inimicizia, che attraverso il terrore e le misure antiterroristiche cresce continuamente fino alla volontà di annientamento.

Ci sono due tipi di guerra particolarmente importanti in relazione con la lotta partigiana, e in un certo modo a essa affini: la guerra civile e la guerra coloniale […]. Il diritto internazionale europeo classico aveva relagato ai margini queste due pericolose forme di guerra e di inimicizia. La guerra dello jus publicum Europaeum era una guerra interstatuale, condotta da un esercito statuale regolare contro un altro esercito statuale regolare.

Per una teoria del partigiano, così come qui la si intende, è necessario tenere d'occhio alcuni criteri […]: l'irregolarità, l'accresciuta mobilità della lotta attiva e l'accresciuta intensità dell'impegno politico. Vorrei ancora stabilire un ulteriore quarto carattere distintivo dell'autentico partigiano: […] il carattere tellurico […]. Il partigiano è e resta nettamente distinto non solo dal pirata, ma anche dal corsaro, così come la terra e il mare rimangono distinti quali spazi elementari dell'attività umana e del contrasto bellico tra i popoli.

Il partigiano rappresenterà dunque un combattente attivo di tipo specificamente terrestre […]. Ma anche il partigiano autoctono di origine agraria viene risucchiato nel campo di forze dell'irresistibile progresso tecnico-industriale. Attraverso la motorizzazione la sua mobilità si fa tale che egli corre il pericolo di sradicarsi completamente dal suo ambiente […]. La motorizzazione fa perdere la sua connotazione tellurica al partigiano, che finisce per diventare un ingranaggio della mastodontica macchina che opera politicamente sul piano mondiale.

Con questi quttro criteri – irregolarità, accresciuta mobilità, intensità dell'impegno politico e carattere tellurico –, e senza dimenticare le possibili conseguenze di un ulteriore incremento della tecnicizzazione, dell'industrializzazione e della deruralizzazione, abbiamo delimitato, sul piano concettuale, l'orizzonte delle nostre osservazioni.

Con la Convenzione di Ginevra del 1949 sono state introdotte, all'interno dell'istituto giuridico della occupatio bellica – che il Regolamento per la guerra terrestredell'Aja aveva disciplinato con precisione –, modifiche i cui effetti restano per molti versi imprevedibili. Combattenti della resistenza che prima sarebbero stati considerati partigiani vengono ora equiparati ai combattenti regolari non appena risultino organizzati. Gli interessi delle popolazioni delle zone occupate vengono sottolineati con tale decisione rispetto a quelli della potenza occupante che, almeno in teoria, è reso possibile ogni tipo di resistenza contro l'occupante, anche quella partigiana, purché essa sorga da motivi rispettabili quel tanto che basta per farla apparire non illegale.

Nonostante i legami e le commistioni […] fra i due tipi di partigiano, il difensore autoctono della propria patria e l'attivsta rivoluzionario che ha per campo d'azione il mondo intero, l'antitesi resta. Questa si basa […] su concetti fondamentalmente diversi di guerra e di inimicizia, che si realizzano in tipi diversi di partigiano. Laddove la guerra viene condotta da entrambe le parti come uno scontro non discriminatorio di uno Stato contro l'altro, il partiginao è una figura marginale, che non fa saltare il quadro della guerra e che non muta la struttura complessiva del processo politico. Quando però si passa a considerare il nemico che si combatte un vero e proprio criminale, quando la guerra diventa per esempio come una guerra civile tra nemici di classe, il suo scopo primario è l'annientamento del governo dello Stato nemico, e allora il rivoluzionario effetto dirompente della criminalizzazione del nemico trasforma il partigiano nel vero eroe della guerra. Egli esegue sentenze di morte contro criminali, e rischia, da parte duea, di essere trattato come un criminale o come un vandalo. È questa la logica di una guerra per justa causa senza il riconoscimento di un justus hostis. Attraverso di essa il partigiano rivoluzionario diventa la vera figura central edle conflitto.

Le quattro Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949 sono il frutto di sentimenti umani e di uno sviluppo dei princìpi umanitari che meritano ammirazione […]. Il loro fondamento resta la statualità della conduzione della guerra e una conseguente delimitazione di questa, con le sue chiare distinzione fra guerra e pace, militare e civile, nemico e criminale, guerra fra Stati e guerra civile. Ma dove allentano o addirittura mettono in discussione queste essenziali distinzioni, spianano la strada a un tipo di guerra che distrugge scientemente quelle chiare separazioni. Ecco allora che qualche norma di compromesso cautamente stilizzata appare soltanto un esile ponticello sopra un abisso che cela in sé un profondo mutamento, gravido di conseguenze, dei concetti di guerra, nemico e partigiano.

Dopo la prima guerra mondiale i vincitori sciolsero lo Stato Maggiore tedesco e ne proibirono la ricostruzione, sotto qualsivoglia forma, con l'articolo 160 del Trattato di Versailles del 28 giugno 1919. dal punto di vista storico e del diritto internazionale, non manca di logica il fatto che i vincitori della seconda guerra mondiale, e in primo luogo Stati Uniti e Unione Sovietica, dopo aver messo al bando la guerra-duello del diritto internazionale europeo classico proscrivessero e annientassero, dopo la comune vittoria sulla Germania, anche lo Stato prussiano.

Il concetto classico del Politico stabilito nel XVIII e nel XIX secolo poggiava sullo Stato inteso secondo il diritto internazionale europeo, e aveva reso la guerra del diritto internazionale classico un puro conflitto interstauale all'interno di una ben definita cornice giuridica. Nel XX secolo questa guerra fra Stati, con le sue precise delimitazioni, viene eliminata e sostituita con la guerra rivoluzionaria dei “partiti”.

A paragone di una guerra dove l'inimicizia è totale, la guerra circoscritta del diritto internazionale europeo classico, che procede secondo regole riconosciute, non è molto più di un duello fra due cavalieri in grado di darsi soddisfazione […]. La guerra dell'inimicizia assoluta non conosce alcuna limitazione. Trova il suo senso e la sua legittimità proprio nella volontà di arrivare alle estreme conseguenze. La sola questione è dunque questa: esiste un nemico assoluto, e chi è in concreto? Per Lenin la risposta era immediata, e la sua superiorità su tutti gli altri socialisti e marxisti deriva proprio dall'aver preso sul serio il concetto di inimicizia totale. Il suo concreto nemico assoluto era l'avversario di classe, il borghese, il capitalista occidentale e il di lui ordine sociale in ogni paese ove fosse al potere.

Stalin riuscì a combinare il forte potenziale della resistenza nazionale e patriottica – vale a direla forza tellurica, essenzialmente difensiva, della lotto contro un invasore straniero – con l'aggressività della rivoluzione comunista mondiale. L'unione di queste due forze eterogenee è oggi alla base di ogni lotta partigiana in tutto il mondo.

I difensori autoctoni del suolo patrio, che morivano pro aris et focis, gli eroi nazionali e patriottici, che se ne andavano nelle foreste, tutto quanto di fronte a un'invasione straniera era reazione di una forza elementare, tellurica, è finito nel frattempo in mano a una direzione centrale internazionale e sovranazionale che fornisce aiuto e sostegno, ma soltanto in vista dei propri scopi – di natura ben diversa, caratterizzati da una aggressività su scala mondiale – e che, a seconda delle circostanze, protegge o pianta in asso. Il partigiano cessa così di essere una figura essenzialmente difensiva, per diventare uno strumento manipolato da un'aggressività che mira alla rivoluzione mondiale. Egli viene semplicemente mandato allo sbaraglio, e defraudato di tutto ciò per cui aveva intrapreso la lotta e in cui erano radicati il carattere tellurico e la legittimità della sua irregolarità partigiana.

Forse le cose cambieranno completamente quando lo Stato un giorno “morirà”. Per il momento la legalità resta l'inevitabile modo di funzionamento di ogni esercito statuale moderno. Il governo legale decide chi sia il nemico contro il quale l'esercito deve combattere. Chi non si vuole sottomettere alla scelta oeprata dal governo in carica, e rivendica la facoltà di decidere chi sia il nemico, rivendica una propria, nuova legalità.

Ogni guerra su due fronti solleva la questione su chi mai si debba considerare il vero nemico. Non è forse un segno di scissione l'avere più di un solo vero nemico? Il nemico è la messa in questione di noi come figure. Se la nostra figura è determinata con chiarezza, come si crea questa duplicità del nemico? Il nemico non è qualcosa che si debba eliminare per un qualsiasi motivo, o che si debba annientare per il suo disvalore. Il nemico si situa sul mio stesso piano. Per questa ragione mi devo scontrare con lui: per acquisire la mia misura, il mio limite, la mia figura.

Nella teoria della guerra si tratta sempre di distinguere esattamente l'inimicizia, che conferisce alla guerra il suo senso e il suo carattere. Ogni tentativo di limitare o ciscoscrivere la guerra deve essere sostenuto dalla convinzione che, relativamente al concetto di guerra, inimicizia è concetto primario, e che una distinzione fra diversi tipi di inimicizia precede quella fra diversi tipi di guerra. Altrimenti tutti gli sforzi per limitare o circoscrivere la guerra restano solo un gioco, che non resiste all'esplosione di una vera inimicizia.

Quando […] la teoria militare di un rivoluzionario di professione come Lenin distrusse ciecamente tutte le delimitazioni tradizionali della guerra, quest'ultima diventò guerra assoluta, e il partigiano si trasformò in portatore dell'inimicizia assoluta contro un nemico assoluto […]. È stata una grande disgrazia, perché con quelle limitazioni della guerra l'umanità europea era pervenuta a qualcosa di straordinario: la rinuncia alla criminalizzazione del nemico, e dunque la relativizzazione dell'inimicizia, la negazione dell'inimicizia assoluta. Ed è davvero qualcosa di straordinario, un segno di incredibile umanità, portare gli uomini a rinunciare alla discriminazione e alla diffamazione dei loro nemici. Proprio questo oggi pare rimesso in discussione dal partigiano.

L'essenza del Politico non è l'inimicizia pura e semplice, bensì la distinzione fra amico e nemico, e presuppone l'amico e il nemico.

Lo sviluppo tecnico-industriale ha […] potenziato le armi dell'uomo fino a farne mezzi di annientamento […]. Questi mezzi distruttivi assoluti richiedono un nemico assoluto, se non vogliono apparire disumani. Ma non sono i mezzi di annientamento che annientano, bensì gli uomini che, con questi mezzi, annientano altri uomini […]. L'estremo pericolo non risiede perciò neppure nell'esistenza dei mezzi di annientamento o in una premeditata malvagità dell'uomo. Risiede nella ineluttabilità di un obbligo morale. Gli uomini che adoperano simili mezzi contro altri uomini si vedono costretti ad annientare questi altri uomini […] anche moralmente. Devono bollare la parte avversa come criminale e disumana, come un disvalore assoluto. Altrimenti sarebbero essi stessi dei criminali e dei mostri. La logica di valore e disvalore dispiega tutta la sua devastatrice consequenzialità e costringe a creare sempre nuove e più profonde discriminazioni, criminalizzazioni e svalutazioni, fino all'annientamento di ogni vita indegna di esistere […]. L'inimicizia diventa così terribile che forse non è più nemmeno lecito parlare di nemico e inimicizia; entrambi questi concetti sono addirittura condannati e banditi formalmente prima che possa cominciare l'opera di annientamento. L'annientamento diventa quindi del tutto astratto e assoluto. Non si rivolge più contro un nemico, ma è ormai al servizio solo di una presunta affermazione oggettiva dei valori più alti – per i quali, notoriamente, nessun prezzo è troppo alto. Solo la sconfessione della vera inimicizia spiana la strada all'opera di annientamento di una inimicizia assoluta.

La tirannia dei valori
Riflessioni di un giurista sulla filosofia dei valori
Die Tyrannei der Werte
Überlegungen eines Juristen zur Wert-Philosophie
, 1967
Edizione italiana: Adelphi, Milano, 2008
Forsthoff faceva notare come nella dottrina dello Stato della monarchia assoluta la virtù avesse ancora un posto, mentre il sistema di legalità dello Stato di diritto borghese non sapeva più che cosa farsene di un termine e di un concetto come virtù. A mo' di sostituto si offriva il valore.

Una conversione in valori, una valorizzazione universale è oggi in atto in tutti gli ambiti della nostra esistenza sociale, e si manifesta persino nella lingua ufficiale delle sfere più alte.

Tutto ciò è plausibile finché si conserva la consapevolezza della specificità del concetto di valore e se ne cerca il significato concreto nella sua sfera originaria, dunque nel campo dell'economia […]. In Germania cent'anni di rapida industrializzazione hanno trasformato il valore in una categoria essenzialmente economica. Oggi per la coscienza comune il termine “valore” è talmente impregnato di senso economico e commerciale che non si può più tornare indietro, e meno che mai in un'epoca di progresso industriale, di ricchezza crescente e di redistribuzione permanente. Una dottrina scientifica dei valori rientra nelle scienze economiche. È qui che una logica del valore trova la sua collocazione. E nel diritto di indennizzo entra in azione. Il principio dell'indennizzo si basa, come afferma Lorenz von Stein, “sulla separazione tra bene e valore [...]”. L'economia, il mercato, la borsa, sono diventati in questo modo il terreno di tutto ciò che si definisce valore in senso specifico. Su questo terreno economico tutti i “valori”, per quanto alti ed extraeconomici, valgono solo come sovrastruttura, che viene compresa in base alla legge del suolo: superficies solo cedit [la superficie accede al suolo] […]. L'irresistibile economicizzazione non è solo una conseguenza, o solo un fenomeno concomitante di un capitalismo che ha trasformato tutto – anche il lavoro umano – in merce, valore e prezzo, e per il quale il denaro è “il valore universale, per sé costituito, di tutte le cose”, avendo esso “spogliato del [suo] valore peculiare” tutto il resto, il mondo dell'uomo e la natura.

Dal 1848 c'è una contemporaneità tanto singolare quanto evidente, una simultaneità, osmosi e simbiosi tra filosofia dei valori e filosofia della vita […]. Per ogni filosofia della vita la vita, se non proprio il valore supremo, è pur sempre un valore superiore […]. Le varie filosofie della vita si ritennero spesso un superamento del materialismo, o comunque si spacciarono volentieri per tali. Ciò non toglie che le loro valutazioni, valorizzazioni e dichiarazioni di non-valore sfociassero nella scolarizzazione generale, ottenendo solo di accelerare la tendenza a una scientificizzazione neutralizzante. Di fatto la conversione in valore non è altro che una trasposizione in un sistema di valori di posizione. Essa rende possibili continui cambiamenti di valore, sia dei sistemi di valore sia all'interno di uno stesso sistema di valori, mediante continui spostamenti nella scala dei valori. Non importa dunque che i valori religiosi, spirituali e morali vengano posti come valori superiori, e che i valori vitali – come li chiama Max Scheler – siano da considerarsi superiori solo rispetto ai valori materiali, mentre rispetto a ciò che attiene allo spirito occupano un posto inferiore. Il fatto decisivo è che tutti i valori, dal più alto al più basso, si collocano sui binari del valore. La posizione nella gerarchia e la sua determinazione sono di seconda importanza; la logica del valore funziona anzitutto a partire dal valore in sé, e solo secondariamente dal posto detenuto dal valore. Una volta inserito in un sistema di valori, anche il valore supremo si converte in un valore cui viene assegnato un posto nel sistema dei valori […]. Nessun sistema di valori può riconoscere un supervalore che non sia un valore. Rimane quindi solo il non-valore, che va escluso dal sistema di valori, poiché la negazione assoluta del non-valore è un valore positivo.

La dottrina puramente formale dei valori della filosofia neokantiana era troppo relativistica e soggettivistica per fornire ciò che si cercava, ovvero un sostituto scientifico per un diritto naturale che non presentava più alcuna legittimità. Un sostituto siffatto fu offerto in modo tanto più energico dall'etica materiale dei valori di matrice fenomenologica di Max Scheler.

Riguardo al nostro tema giuridico – reinterpretazione dei diritti fondamentali e della Costituzione come sistema di valori, “effetto su terzi” dei diritti fondamentali e conversione dell'attuazione della Costituzione in attuazione di valori –, si tratta della necessità di convertire l'attuazione della Costituzione da un'attuazione di norme e di decisioni a un'attuazione di valori.

Dobbiamo perciò tenere presente che la logica del valore degenera non appena abbandona l'ambito a lei pertinente dell'economico e della justitia commutativa per valorizzare e convertire in valori beni, interessi, scopi e idee differenti da quelli economici. Il valore superiore giustifica allora pretese imprevedibili e dichiarazioni di inferiorità; l'attuazione immediata dei valori distrugge l'attuazione giuridicamente assennata che ha luogo solo all'interno di ordinamenti concreti, in base a precisi regolamenti e chiare sentenze.

È un errore fatale credere che i beni e gli interessi, gli scopi e gli ideali che sono qui in questione potrebbero essere salvati, attraverso la loro valorizzazione, dalla avalutatività dell'atteggiamento tipico delle scienze naturali moderne. I valori e le teorie dei valori non sono in grado di creare legittimità; possono appunto sempre e solo valorizzare.

Ciò che accade è il tentativo di individuare una via d'uscita della situazione critica in cui la pretesa di scientificità delle scienze dello spirito era venuta a trovarsi a causa della pervasività dell'atteggiamento ispirato alle scienze della natura nell'Europa del XIX secolo. In altri termini, la filosofia dei valori è una reazione alla crisi nichilistica del XIX secolo. Ciò che vi è di nuovo è qualcosa di negativo […], uno specifico surplus di degrado, discriminazione e giustificazione di un annientamento.

L'aggressività (il “punto d'attacco”) contenuta nel pensare per valori tende per lo più a scemare nei giuristi che praticano teorie dei valori rigorosamente formali di ispirazione neokantiana. Anzi, l'accentuata soggettività e la relatività delle teorie puramente formali dei valori suscitano a prima vista addirittura l'apparenza di una tolleranza illimitata […]. Eppure, finché vige la logica del valore la sua aggressività immanente è solo spostata.

Il lupo che divora l'agnello attua la validità superiore del valore nutritivo di cui l'agnello per il lupo è “portatore” rispetto alla validità inferiore del valore vitale di cui lo stesso agnello è “portatore” rispetto al valore vitale del lupo. Nondimeno, il lupo non nega il valore nutritivo dell'agnello, né lo uccide soltanto per annientarlo. Solo il dichiarare l'agnello un non-valore assoluto gli fornirebbe l'interpretazione, secondo il sillogismo dei valori, per un annientamento altrimenti inspiegabile.

Una coerente “filosofia dei valori” della libertà non può accontentarsi di proclamare la libertà come valore supremo; deve capire soprattutto che per la filosofia dei valori non solo la libertà è il valore supremo, ma anche che la libertà dai valori è la libertà suprema.

Naturalmente anche prima della filosofia dei valori si è parlato di valori, e pure di non-valore. Ma per lo più si faceva una distinzione affermando: le cose hanno un valore, le persone hanno una dignità. Si riteneva indegno ridurre la dignità a valore. Oggi invece anche la dignità si trasforma in valore. Il che significa un vistoso innalzamento di rango del valore. Il valore si è per così dire rivalutato.

Bisogna considerare che il valore di cui parla la filosofia dei valori non deve avere un essere, bensì una validità. Il valore non è, ma vale [...]. Questo valere implica ovviamente […] un impulso tanto più forte alla realizzazione. Il valore aspira apertamente a essere posto in atto. Non è reale, ma è senza dubbio riferito alla realtà, e attende con impazienza di essere attuato ed eseguito.

La validità dei valori si basa su atti di posizione. Ma chi è, qui, che pone i valori? Le risposte più chiare e anche più aperte a questa domanda le troviamo in Max Weber: a porre i valori è quindi l'individuo umano nel suo totale libero arbitrio puramente soggettivo. Egli si sottrae così alla avalutatività assoluta del positivismo scientifico, contrapponendo a esso la sua visione del mondo libera, cioè soggettiva. La libertà puramente soggettiva della posizione dei valori conduce però a un eterno conflitto dei valori e delle visioni del mondo, una guerra di tutti contro tutti […]. Sono sempre i valori a fomentare le battaglie e a tener viva l'ostilità. Il fatto che i vecchi dèi siano disincantati e ridotti a meri valori dotati di validità rende spettrale la contesa e disperatamente aggressivi i contendenti. È questo l'incubo che la rappresentazione weberiana ha lasciato. Alcuni filosofi come Max Scheler e Nicolai Hartmann hanno cercato di sfuggire al soggettivismo delle valutazioni e di trovare una filosofia dei valori materiale e oggettiva.

Scheler ha creato una gerarchia dei valori che, dal basso verso l'alto, parte dall'utile per arrivare al sacro. Hartmann ha costruito il sistema oggettivo coerente di un mondo in cui al livello più basso dovrebbe porsi l'inorganico, a quello più alto lo spirituale. Ma i valori, ancorché possano essere ritenuti alti e sacri, in quanto valori valgono sempre solo per qualcosa o per qualcuno.

Nessuno può dunque sfuggire alla logica immanente del pensare per valori. Non importa che il valore sia soggettivo, formale o materiale: non appena appare, si attiva inevitabilmente uno specifico meccanismo mentale, connaturato a ogni pensare per valori. Il carattere specifico del valore risiede infatti nell'avere non già un essere, ma soltanto una validità. Ne consegue che la posizione non è nulla se non si impone; la validità deve essere continuamente attualizzata, cioè fatta valere, se non vuole dissolversi in mera parvenza. Chi dice valore vuole far valere e imporre. Le virtù si esercitano; le norme si applicano; gli ordini si eseguono; ma i valori vengono posti e imposti. Chi ne sostiene la validità deve farli valere. Chi dice che valgono senza che vi sia nessuno che li fa valere è un impostore.

Se qualcosa ha valore, e quanto ne ha, se qualcosa è un valore, e in quale misura, lo si può stabilire soltanto in base a un punto di osservazione o punto di vista già posto. La filosofia dei valori è una filosofia di “punti”, l'etica dei valori un'etica di “punti” […]. Non si tratta quindi né di idee né di categorie, né di principi né di premesse. Sono propriamente “punti”. Essi si collocano nel sistema di un puro prospettivismo, un sistema di relazioni. Ogni valore è quindi un valore di posizione. Anche il valore supremo […] ha proprio in quanto tale, in quanto valore supremo, solo il suo valore di posizione nel sistema dei valori.

Proprio qui dove il puntismo del pensare per valori balza agli occhi si manifesta con forza l'onestà intellettuale di Max Weber […]. Accanto a tutti i punti di vista, punti di osservazione e punti di fuga, egli ha chiamato apertamente per nome un punto particolare, e precisamente il punto cruciale: il “punto di attacco” [… della valutazione].

L'espressione “punto di attacco” svela la potenziale aggressività immanente a ogni posizione di valori. Espressioni come “punto di osservazione” o “punto di vista” sono forvianti e danno l'imnpressione di un relativismo, relazionismo e prospettivismo apparentemente illimitati, e con ciò di altrettanta tolleranza, legata a una sostanziale, benevola neutralità. Ma non appena si è consapevoli del fatto che qui sono in gioco anche punti di attacco, le illusioni neutralistiche cadono […]. L'immanente aggressività rimane il “fatale rovescio” dei valori. L'aggressività è connaturata alla struttura tetico-ponente del valore, e continua a essere prodotta dalla concreta attuazione del valore.

Per superare la teoria soggettiva dei valori e per garantire l'oggettività dei valori non basta occultare i soggetti e far tacere i portatori di valore, i cui interessi forniscono i punti di osservazione, i punti di vista e i punti di attacco del valutare. Nessuno può valutare senza svalutare, rivalutare e valorizzare. Chi pone i valori si è in tal modo già contrapposto ai non-valori. Non appena l'imporre e il far valere diventano davvero una cosa serie, la tolleranza e la neutralità illimitate dei punti di vista e dei punti di osservazione intercambiabili a piacere si ribaltano subito nel loro opposto, cioè in ostilità. L'anelito del valore alla vallidità è irresistibile, e il conflitto tra valutatori, svalutatori, rivalutatori e valorizzatori è inevitabile.

Secondo la logica del valore deve sempre valere il principio che per il valore supremo il prezzo supremo non è mai troppo alto, e va pagato […]. Prima, quando la dignità non era ancora un valore ma qualcosa di essenzialmente diverso, il fine non poteva giustificare il mezzo. Anzi la massima secondo cui il fine giustifica i mezzi era considerata riprovevole. Nella gerarchia dei valori vigono invece altre relazioni, che giustificano il fatto che il valore annienti il non-valore, e che il valore superiore tratti come abietto il valore inferiore.

La teoria dei valori festeggia i suoi autentici trionfi nel dibattito sulla questione della guerra giusta […]. Ogni riguardo nei confronti del nemico viene a cadere, anzi diventa un non-valore non appena la battaglia contro il nemico diventa una battaglia per i valori supremi. Il non-valore non gode di alcun diritto di fronte al valore, e quando si tratta di imporre il valore supremo nessun prezzo è troppo alto. Sulla scena perciò restano solo l'annientatore e l'annientato. Tutte le categorie del diritto bellico classico dello jus publicum europaeum – giusto nemico, giusto motivo della guerra, giusta misura dei mezzi e adeguatezza della condotta (debitus modus) – cadono irrimediabilmente vittime di questa mancanza di valori. L'impulso a imporre i valori diventa qui una costrizione all'attuazione immediata dei valori stessi.