Le aporie che contraddistinguono il nostro tempo, lo spaesamento al quale ci costringe la perdita di ogni limes e la conflittualità caotica di cui è intriso lo spazio globale non sono altro che l'ineluttabile esito di un processo di trasformazione dello spazio politico che attraversa tutta la Modernità. E si tratta di un processo di trasformazione contrassegnato dallo sviluppo della tecnica e dal trionfo dell'economia tardo-capitastica, come Schmitt aveva saputo lucidamente capire già a partire dagli anni Trenta. In queste pagine si è cercato di mostrare come alcuni aspetti della globalizzazione, che ha profondamente trasformato i concetti di guerra, inimicizia e sovranità statale, si possono comprendere davvero solo se vengono analizzati con le lenti della riflessione schmittiana.
Solo accostandoci a Schmitt è possibile fare luce sull'ambiguo e spesso strumentale uso di concetti come guerra, pace, democrazia, terrorismo, dei quali abusa l'indiscussa sovranità dell'Impero globale attualmente di stampo statunitense.
Grazie alla spinta dell universalismo pacifista wilsoniano - che aveva reintrodotto la nozione di justa causa belli - e grazie all'introduzione da parte degli Stati Uniti di un concetto discriminatorio di guerra che distingueva le guerre giuste e lecite da quelle ingiuste e illecite, la guerra interstatale ha finito per trasformarsi in una "guerra civile mondiale". Quest'ultima, non più sottoposta alla regolamentazione giuridica, diviene azione di polizia internazionale volta a sconfiggere dei criminali, presentandosi al mondo come "giusta" e "umanitaria". I conflitti d'ora in poi lasceranno spazio all'unica dicotomia possibile: i buoni contro i cattivi, il Bene contro il Male.
Lo justus hostis dello jus publicum europaeum - il nemico pubblico con il quale scendere a patti e riconciliarsi - svanisce nei meandri dell'indeterminatezza di una visione universalistica e "umanitaria" di matrice neo-liberista. Secondo tale visione era doveroso diffondere nel globo intero i "valori" di pace, libertà e democrazia, in opposizione alla sregolata supremazia del Mercato. Il nemico globale sarebbe stato d'ora in poi solo colui che intende sfuggire, anche se con inaudita violenza, a questa nuova religione del benessere neocapitalistico, di cui solo pochi eletti possono fruire i vantaggi.
Se l'"occidentalizzazione del mondo" si sta realizzando sotto il segno dell'American way of life, - perchè l'Occidente già da tempo ha cambiato dimora, spostando il suo baricentro dal cuore dell'Europa al Nordamerica, dal Mediterraneo all'Oceano, dal confine all'illimite. Attraverso questa traduzione, il "vero" Occidente, epigono di un'esistenza marittimo-oceanica di matrice atlantica, - divenuto il terreno fertile dell'Economico. Debordando dai propri confini, oltre ad emanciparsi dal Politico e dalla morale, il vero Occidente riduce a sé ogni altra istanza.
L'unità del mondo, che Schmitt paventava già negli anni Cinquanta, si è dunque realizzata sotto i nostri occhi. Questa unità del capitale liquido, di cui gli Stati Uniti sono i grandi promotori, inonda senza freni ogni spazio dell'esistenza umana che, attonita, assiste al liquefarsi di ogni visibile confine e consolidata identità.
Ma se vogliamo "governare" l'irrefrenabile spinta verso l'Uno e intravedere orizzonti, orizzonti di senso che non siano quelli del capitale, e se crediamo ancora possibile ri-spazializzare politicamente la nostra Terra ripristinando uno jus gentium valido per i nomadi dell'epoca globale, è a Carl Schmitt che dobbiamo volgere lo sguardo. Potremmo così sperare che il destino del mondo non sia l'uniformizzazione planetaria, ma quello di una pluralità di "grandi spazi".
Chi, se non l'Europa, potrebbe in futuro dare avvio ad un nuovo percorso e a un nuovo destino per tutti noi? Ma è improbabile che l'Europa possa farsi promotrice di un "nuovo inizio" se non riuscirà a ritrovare se stessa e la sua molteplice identità. Un nuovo inizio ci sarà solo quando l'Europa avrà deciso di non rimanere atlantica e si impegnerà a recuperare la feconda "memoria" del Mediterraneo - sua culla e sua origo - che potrebbe restituirla a se stessa e al proprio avvenire. Solo nel Mediterraneo l'Europa potrebbe trovare le radici del proprio futuro: un futuro nel quale le differenti nazionalità, lingue e culture che la compongono sappiano scoprire il valore e la potenza del cum, in virtù del quale ciascuna di esse possa vivere con l'altra, pur essendo diversa.
Lo spettro che s'aggira per l'Europa alla vigilia del ventesimo secolo è, per Carl Schmitt, lo spettro minaccioso della nuova linea globale dell'emisfero occidentale. E' infatti con inquietudine che egli esplicita, nelle pagine del Nomos della terra, la portata rivoluzionaria della nuova linea, la cui evoluzione e le continue trasformazioni diventeranno la posta in gioco della realizzazione di un nuovo ordine mondiale. Congedandosi dalle moderne linee di amicizia - topoi di un pensiero del limes - l'emisfero occidentale dischiudeva una nuova epoca: l'epoca della "linea di valutazione morale".
Nella scomparsa di ogni limite, come di ogni possibile localizzazione, il nuovo diritto internazionale, che si afferma a partire dalla pretesa americana di decidere su tutta la terra tra ciò che è giusto e ingiusto, non fa che attestare "il significato genuino del paninterventismo globale in cui è sfociato il principio dell'emisfero occidentale", tradendo, così, il carattere originariamente "difensivo" della dottrina di Monroe.
La nuova "guerra giusta", condotta in nome dell'umanità dall'universalismo etico della società ginevrina - di matrice anglosassone -, avrebbe di lì a poco ulteriormente confermato la spietata diagnosi schmittiana, e cioè l'avvento di una "guerra civile mondiale di segno totale e globale". Ma, come puntualizza Schmitt, solo apparentemente essa sembra il risultato di un processo di spoliticizzazione: "la polizia non è qualcosa di apolitico. La politica mondiale è una politica molto intensiva, risultante da una volontà di pan-interventismo; essa è soltanto un tipo particolare di politica e non certo la più attraente: è cioè la politica della guerra civile mondiale". Questa politica, nella quale domina un'ostilità assoluta e illimitata e alla quale - estranea ogni concretezza capace di dar "forma" all'inimicizia reale, non coincide, per Schmitt, con il Politico - il cui presupposto è la distinzione reale e concreta fra amico e nemico - ma coincide con la potestas indirecta di un universalismo marittimo-tecnico-liberaldemocratico, del quale il formalismo giuridico della Società delle Nazioni è espressione.
Alla luce di un siffatto universalismo di matrice etica, in sè tendenzialmente discriminatorio perché portato a considerare l'eccezione come un "errore", la nuova guerra globale e totale - legibus soluta - mostrava i suoi più distruttivi e sanguinari esiti negando ai suoi nemici ogni qualità umana.
Contro il nemico, posto al di fuori dell'umanità, la comunità internazionale, in nome dei grandi valori, non esiterà a utilizzare tutti i possibili mezzi utili per l'annientamento. Solo chi combatte in nome dell'umanità è convinto di poter decidere chi è umano e chi non lo è.
In nome della libertà e della pace Versailles, Ginevra e Norimberga avevano trasformato "il diritto internazionale in un'appendice del diritto penale e la guerra in azione di polizia destinata a reprimere il colpevole". Nessuno d'ora in poi, né Stati né tanto meno gli individui, potrà sottrarsi alla giustizia dei vincitori. Il tribunale penale internazionale, che in nome della giustizia era stato istituito a Norimberga alla fine del secondo conflitto mondiale - fiore all'occhiello di questa singolare giustizia - oltre a qualificare la guerra come un "crimine morale contro l'umanità", ritenne necessario portare sul banco degli imputati non solo gli Stati, ma anche gli individui.
Nell'unità uniformante, in cui tutto - illimite, in-forme, senza tempo e luogo, quale Nomos può ancora spartire e distinguere lo spazio? Quale misura può sorgere da uno spirito imperante a "cui è estranea ogni misura?"
Docente di filosofia, sociologia e antropologia nei licei, ha conseguito il dottorato di ricerca in Metodologia della filosofia presso l Universit di Messina. Da tempo collabora con la rivista on line Jura Gentium Journal recensendo autori quali N. Chomsky, U. Curi, C. Schmitt, G. Anders.
Con Danilo Zolo, ha pubblicato per Diabasis, Il nuovo disordine mondiale. Un dialogo sulla guerra, il diritto e le relazioni internazionali, 2011.
Altri saggi:
Nell'orizzonte globale in cui viviamo potrebbe sembrare che il pensiero di Carl Schmitt non abbia più nulla da dirci, così tenacemente radicato com'è nelle categorie del Moderno. In queste pagine l'autore ha invece cercato di mostrare come alcuni aspetti della globalizzazione si possono comprendere solo se vengono analizzati con le lenti della riflessione schmittiana. Questo non significa ricavare dal pensiero di Schmitt le risposta alle sfide che la globalizzazione oggi ci pone, ma significa approfondire le sue analisi e riconoscere la preveggenza della sua diagnosi. Solo accostandosi a Schmitt sostiene l'autore - è possibile fare luce sull'ambiguo e spesso strumentale uso di concetti come "guerra", "pace", "democrazia", "terrorismo", dei quali abusa la sovranità imperiale degli Stati Uniti. Soltanto attraverso Schmitt è possibile dare senso e restituire "forma" a concetti che la dimensione globale ha trascinato in un caos concettuale e ideologico.
Le aporie che contraddistinguono il nostro tempo, lo spaesamento al quale ci costringe la perdita di ogni limes e la conflittualità caotica di cui è intriso lo spazio globale non sono altro che l'ineluttabile esito di un processo di trasformazione dello spazio politico che attraversa tutta la Modernità. E si tratta di un processo di trasformazione contrassegnato dallo sviluppo della tecnica e dal trionfo dell'economia tardo-capitastica, come Schmitt aveva saputo lucidamente capire già a partire dagli anni Trenta. In queste pagine si è cercato di mostrare come alcuni aspetti della globalizzazione, che ha profondamente trasformato i concetti di guerra, inimicizia e sovranità statale, si possono comprendere davvero solo se vengono analizzati con le lenti della riflessione schmittiana.
Solo accostandoci a Schmitt è possibile fare luce sull'ambiguo e spesso strumentale uso di concetti come guerra, pace, democrazia, terrorismo, dei quali abusa l'indiscussa sovranità dell'Impero globale attualmente di stampo statunitense.
Grazie alla spinta dell universalismo pacifista wilsoniano - che aveva reintrodotto la nozione di justa causa belli - e grazie all'introduzione da parte degli Stati Uniti di un concetto discriminatorio di guerra che distingueva le guerre giuste e lecite da quelle ingiuste e illecite, la guerra interstatale ha finito per trasformarsi in una "guerra civile mondiale". Quest'ultima, non più sottoposta alla regolamentazione giuridica, diviene azione di polizia internazionale volta a sconfiggere dei criminali, presentandosi al mondo come "giusta" e "umanitaria". I conflitti d'ora in poi lasceranno spazio all'unica dicotomia possibile: i buoni contro i cattivi, il Bene contro il Male.
Lo justus hostis dello jus publicum europaeum - il nemico pubblico con il quale scendere a patti e riconciliarsi - svanisce nei meandri dell'indeterminatezza di una visione universalistica e "umanitaria" di matrice neo-liberista. Secondo tale visione era doveroso diffondere nel globo intero i "valori" di pace, libertà e democrazia, in opposizione alla sregolata supremazia del Mercato. Il nemico globale sarebbe stato d'ora in poi solo colui che intende sfuggire, anche se con inaudita violenza, a questa nuova religione del benessere neocapitalistico, di cui solo pochi eletti possono fruire i vantaggi.
Se l'"occidentalizzazione del mondo" si sta realizzando sotto il segno dell'American way of life, - perchè l'Occidente già da tempo ha cambiato dimora, spostando il suo baricentro dal cuore dell'Europa al Nordamerica, dal Mediterraneo all'Oceano, dal confine all'illimite. Attraverso questa traduzione, il "vero" Occidente, epigono di un'esistenza marittimo-oceanica di matrice atlantica, - divenuto il terreno fertile dell'Economico. Debordando dai propri confini, oltre ad emanciparsi dal Politico e dalla morale, il vero Occidente riduce a sé ogni altra istanza.
L'unità del mondo, che Schmitt paventava già negli anni Cinquanta, si è dunque realizzata sotto i nostri occhi. Questa unità del capitale liquido, di cui gli Stati Uniti sono i grandi promotori, inonda senza freni ogni spazio dell'esistenza umana che, attonita, assiste al liquefarsi di ogni visibile confine e consolidata identità.
Ma se vogliamo "governare" l'irrefrenabile spinta verso l'Uno e intravedere orizzonti, orizzonti di senso che non siano quelli del capitale, e se crediamo ancora possibile ri-spazializzare politicamente la nostra Terra ripristinando uno jus gentium valido per i nomadi dell'epoca globale, è a Carl Schmitt che dobbiamo volgere lo sguardo. Potremmo così sperare che il destino del mondo non sia l'uniformizzazione planetaria, ma quello di una pluralità di "grandi spazi".
Chi, se non l'Europa, potrebbe in futuro dare avvio ad un nuovo percorso e a un nuovo destino per tutti noi? Ma è improbabile che l'Europa possa farsi promotrice di un "nuovo inizio" se non riuscirà a ritrovare se stessa e la sua molteplice identità. Un nuovo inizio ci sarà solo quando l'Europa avrà deciso di non rimanere atlantica e si impegnerà a recuperare la feconda "memoria" del Mediterraneo - sua culla e sua origo - che potrebbe restituirla a se stessa e al proprio avvenire. Solo nel Mediterraneo l'Europa potrebbe trovare le radici del proprio futuro: un futuro nel quale le differenti nazionalità, lingue e culture che la compongono sappiano scoprire il valore e la potenza del cum, in virtù del quale ciascuna di esse possa vivere con l'altra, pur essendo diversa.
Lo spettro che s'aggira per l'Europa alla vigilia del ventesimo secolo è, per Carl Schmitt, lo spettro minaccioso della nuova linea globale dell'emisfero occidentale. E' infatti con inquietudine che egli esplicita, nelle pagine del Nomos della terra, la portata rivoluzionaria della nuova linea, la cui evoluzione e le continue trasformazioni diventeranno la posta in gioco della realizzazione di un nuovo ordine mondiale. Congedandosi dalle moderne linee di amicizia - topoi di un pensiero del limes - l'emisfero occidentale dischiudeva una nuova epoca: l'epoca della "linea di valutazione morale".
Nella scomparsa di ogni limite, come di ogni possibile localizzazione, il nuovo diritto internazionale, che si afferma a partire dalla pretesa americana di decidere su tutta la terra tra ciò che è giusto e ingiusto, non fa che attestare "il significato genuino del paninterventismo globale in cui è sfociato il principio dell'emisfero occidentale", tradendo, così, il carattere originariamente "difensivo" della dottrina di Monroe.
La nuova "guerra giusta", condotta in nome dell'umanità dall'universalismo etico della società ginevrina - di matrice anglosassone -, avrebbe di lì a poco ulteriormente confermato la spietata diagnosi schmittiana, e cioè l'avvento di una "guerra civile mondiale di segno totale e globale". Ma, come puntualizza Schmitt, solo apparentemente essa sembra il risultato di un processo di spoliticizzazione: "la polizia non è qualcosa di apolitico. La politica mondiale è una politica molto intensiva, risultante da una volontà di pan-interventismo; essa è soltanto un tipo particolare di politica e non certo la più attraente: è cioè la politica della guerra civile mondiale". Questa politica, nella quale domina un'ostilità assoluta e illimitata e alla quale - estranea ogni concretezza capace di dar "forma" all'inimicizia reale, non coincide, per Schmitt, con il Politico - il cui presupposto è la distinzione reale e concreta fra amico e nemico - ma coincide con la potestas indirecta di un universalismo marittimo-tecnico-liberaldemocratico, del quale il formalismo giuridico della Società delle Nazioni è espressione.
Alla luce di un siffatto universalismo di matrice etica, in sè tendenzialmente discriminatorio perché portato a considerare l'eccezione come un "errore", la nuova guerra globale e totale - legibus soluta - mostrava i suoi più distruttivi e sanguinari esiti negando ai suoi nemici ogni qualità umana.
Contro il nemico, posto al di fuori dell'umanità, la comunità internazionale, in nome dei grandi valori, non esiterà a utilizzare tutti i possibili mezzi utili per l'annientamento. Solo chi combatte in nome dell'umanità è convinto di poter decidere chi è umano e chi non lo è.
In nome della libertà e della pace Versailles, Ginevra e Norimberga avevano trasformato "il diritto internazionale in un'appendice del diritto penale e la guerra in azione di polizia destinata a reprimere il colpevole". Nessuno d'ora in poi, né Stati né tanto meno gli individui, potrà sottrarsi alla giustizia dei vincitori. Il tribunale penale internazionale, che in nome della giustizia era stato istituito a Norimberga alla fine del secondo conflitto mondiale - fiore all'occhiello di questa singolare giustizia - oltre a qualificare la guerra come un "crimine morale contro l'umanità", ritenne necessario portare sul banco degli imputati non solo gli Stati, ma anche gli individui.
Nell'unità uniformante, in cui tutto - illimite, in-forme, senza tempo e luogo, quale Nomos può ancora spartire e distinguere lo spazio? Quale misura può sorgere da uno spirito imperante a "cui è estranea ogni misura?"