Secondo il principio fenomenologico non si può fare diversamente: apophainesthai come apparire e diventare visibile dell’oggetto, e apophasis come discorso da manifestare e rendere visibile, formano un’unità originaria dell’essere radicati di cosa ed espressione, che si dischiude in un contrastante “movimento”. Per questa ragione, essenza dell’uomo (= ciò che fa dell’uomo “prima di tutto” un uomo, o sui cui fondamenti soli egli è uomo) significa quel che c’è dell’umanità in lui, e determina il suo essere uomo hic et nunc; il carattere dell’umanità è metodicamente già assicurato in anticipo quale suo fondamento. Poiché l’uomo deve essere compreso quale soggetto di imputazione della propria civiltà e quale creatore nell’orizzonte della propria storia, ma il risultato creativo deve essere realizzato a partire dal fondamento, dalla radice della sua umanità; se, meglio, la sua produttività ha qualcosa a che fare con lui “stesso” – altrimenti egli è reso non interamente responsabile proprio del suo agire –, allora si insinua fin dall’inizio l’esser proprio dell’umanità, “l’umanità in lui”, come diceva l’idealismo tedesco,come fondamento dimostrativo. Un apriorismo inteso anche soltanto sul piano del metodo conduce inevitabilmente all’ontologizzazione universalistico-razionalistica dell’essenza umana.
Ecco perché l’imperscrutabilità dell’uomo avvicina al cuore dell’antropologia, ed ecco perché la possibilità dell’essere–uomo (nella quale sta racchiusa quel che prima di tutto fa dell’uomo un uomo, la radice umana) deve essere stabilità in ragione dell’imperscrutabilità. Solo quando e perché noi non sappiamo di che cosa l’uomo è ancora capace, ha un senso insistere nella dolorosa vita su questa terra. L’imperscrutabilità a se stesso è il principio vincolante per la serietà dei suoi compiti, il principio vincolante della sua vita e della sua comprensione della vita […]. Solo in quanto noi ci consideriamo imperscrutabili diamo alla vita che ancora abbiamo da vivere, lo diamo alla vita vissuta dell’uomo, il contrappeso della serietà. La ragione scorge soltanto ciò che essa stessa produce secondo il suo disegno […]. Delle cose conosciamo a priori soltanto ciò che noi stessi poniamo in esse […]. Proprio questa restrizione anticipatoria dell’interrogazione ha reso possibile la fondazione delle scienze empiriche dello spirito […]. L’esperimento (il quale è concepito secondo la progettazione del problema), quale che sia il suo esito, positivo o negativo, conferma o contraddice una tesi.
Il sapere portato a sé dalla storia, il sapere scaturito dalla storia fornisce così la consapevolezza della sua originaria potenza. Nel riconoscimento del carattere vincolante dell’imperscutabile viene così scoperta l’emersione nel tempo dell’atemporale e del sovratemporale, dello spirito; ovvero il mondo spirituale, l’aldilà dell’effimero essere umano, viene restituito a lui stesso quale suo proprio aldilà. Così l’uomo si riappropria – e così egli oggi si orienta in quanto uomo – di Dio e natura, diritto e costituzione, arte e scienza come sistemi di realtà, di valori e di categorie che nascono dal suo potere: “comprendendoli”. Comprendere storicamente, di conseguenza, vuole dire infine conoscere se stessi e il proprio mondo come qualcosa di divenuto a partire dal potere di passate generazioni, e con ciò ricondurre il proprio presente, nell’ampiezza delle sue dimensioni complessive, al comportamento umano che lo rende accessibile. Raggiunta la posizione da cui fa irruzione nella realtà storica in forza del libero riconoscimento del carattere vincolante dell’imperscutabile, questa veduta non si arresta, bensì la smonta fino ad arrivare a ciò che è stato riconosciuto, e sottrae ad esso, in questa relativizzazione storica, il peso di un punto di vista, di un principio o di un fondamento assoluti.
Se a questo circolo, che rimanda così alle sue origini storiche, si dà esclusivamente il carattere di realtà oggettiva sacrificando o ignorando il principio che lo scandisce, si assolutizza la realtà, e si ottiene, come risultato, lo storicismo. La sua presunta necessarietà […] riposa su questo ignorare l’ancoraggio del mondo storico alla libera accettazione del carattere vincolante del suo principio, che ne dispone una realizzazione vitale da parte di uomini vitali. Questa realizzazione vitale è possibile soltanto di volta in volta ad un presente che si stagli proprio in quanto presente sullo sfondo e sul sottosuolo (destinati a svanire) del passato, e che si staccano dal mero divenuto come ciò che sta divenendo. Quel che del passato sembra l’ultimo effetto, cioè il presente vissuto – che è però già passato vero e proprio, anche se, nella sua prossimità, un passato ancora presente – si dà a vedere e a comprendere nella propria immediatezza solo a partire dall’imperscrutabile perché delle nostre decisioni, quindi solo con un capovolgimento della prospettiva. In questo capovolgimento dello sguardo la vita stessa si volge a sé, per scoprirsi come passata e divenuta. In questo capovolgimento, tuttavia, il suo potere sul passato emerge dal continuum del divenire e si manifesta come presente. Questo potere è, da una parte, potere teoretico, in quanto dipende dalla volta della prospettiva se il passato venga colto come un nesso che ha ancora effetti nella prospettiva stessa, oppure come storia. Questo potere è però, d’altra parte, potere pratico-politico, in quanto il passato viene configurato dalle decisioni delle generazioni che combattono per il loro presente. Se il passato non è anzitutto un nesso oggettuale separato mediante una spaccatura dal presente e con ciò anche da coloro che lo osservano […]; e se invece esso è ciò che poco alla volta si consolida in una sorta di compiutezza e che può a sua volta essere risolto in un punto vivente del presente – esso è anzi la sua genesi –, allora si mostra anche la forza retroattiva e creatrice di storia […] di questa continuità tra passato e presente. Ogni generazione retroagisce così sulla storia e fa di essa quel che non-isoltato, di aperto e di perpetuamente rinnovantesi, al quale è adeguata soltanto la sua problematica aperta nella compenetrazione comprendente. Il principio del carattere vincolante dell’imperscrutabilità è la formulazione ad un tempo teoretica e pratica dell’uomo in quanto essere storico e perciò politico. […]. Nella liberazione dell’orizzonte della storia, la filosofia non rinuncia storicisticamente alla possibilità di confrontarsi con le cose stesse, poiché questa è la falsa prospettiva storica del passato già assolutizzato nella propria oggettività; essa sa invece che questa liberazione è possibile solo a partire da un presentificare che precede il passato, e che ha perciò la libertà di comprendere se stesso come divenuto a partire da questo passato, e che sta diventando passato. Presentificare è però proprio ciò che nella storia delle colture rende possibile, sia sul piano teoretico che su quello pratico-politico, il suo riferimento alle cose ed al mondo, la sua interna libertà, e perciò la sua eterna ridefinibilità o apertura, sin nelle più remote lontananze.
Il principio per cui l’imperscrutabilità viene assunta in maniera vincolante per la conoscenza della vita dell’uomo, rimanda al rapporto tra l’apeiron, l’imperscutabile “da dove” di un mondo spirituale, e il peras di questo mondo, che storicamente viene strappato all’apeiron in una situazione storica costrittiva […]. Poiché la decisione sull’essenza dell’uomo non può essere cercata senza la sua concreta partecipazione, quindi non può essere cercata in una definizione neutrale, ma soltanto nella sua storia quale decisione sempre faticosamente raggiunta, la decisione per un presente da conquistare viene resa possibile sempre su un’altra già avvenuta: o si attiene ad essa, oppure se ne stacca. Essa ha dunque su di sé la storia, la sua storia. Se dal rapporto tra lo sfondo vitale dell’uomo e la sua individuazione di volta in volta raggiunta viene tenuta lontana l’immagine di una continua emanazione, per l’antropologia è diventata preminente la prospettiva dell’uomo stesso, così come a noi è accessibile. Il rapporto “naturale” tra passato e presente si dimensiona allora sulla riflessione sull’uomo. Si tratta di un’immanenza aperta in un doppio significato. Il passato, che ci penetra in tutto e per tutto come origine nascosta o cosciente, e che ci tiene avvinti nel quadro della tradizione, si schiude nella vita ancora da vivere del presente. E il presente, che ci tiene avvinti in un altro senso, a partire dal perché della nostra condotta di vita, si schiude in quel che noi fattualmente già siamo, perché siamo diventati così in virtù del nostro passato. Se manteniamo la riflessione sull’essenza dell’uomo in questa immanenza aperta, allora manteniamo, per dirla con Mish, il legame tra la dimensione oscuro-potestativa e l’individuazione storicamente strappata ad essa.
La determinazione dell’essenza dell’uomo come potere, o come questione aperta, è teoreticamente definita solo in quanto dà la regola di tenersi lontano da una fissazione teoretica, contenutistica o formale, in quanto fissazione che potrebbe sottomettere la sua storia passata e futura a uno schema extra–storico della storia […]. Se noi pensiamo “l’essere una questione aperta”, e il potere come un’essenza nell’uomo, la sua verità potrà essere convalidata soltanto nella storia. La frase di Dilthey, che l’uomo può sperimentare ciò che è solo attraverso la storia, vale dunque anche in senso pratico.
In tutti i caratteri della situazione si esprime quella situazione intermedia tra un ambiente chiuso di rimandi circolari tra riferimenti che danno e ricevono senso, ed il mondo aperto della realtà infondata: una posizione per la quale nulla stabilisce senza essere a sua volta stabilito, e nulla può essere stabilito senza a sua volta stabilire. È ben per questo che tempi precedenti al nostro hanno considerato l’uomo tra Dio e la bestia; fra la bestia – che vive in un ambiente in accordo con le sue funzioni, in una sfera di significanza puramente relativa alla sua esistenza – e Dio, come volontà e occhio a cui l’aperta infinitezza della realtà è anch’essa attualmente presente. In tale posizione intermedia, l’uomo si trova racchiuso da orizzonti, e la sua situazione è frammentata in un aldiqua e in un aldilà di quello che è di volta in volta l’orizzonte. Racchiuso eppure esposto, egli è così l’essere carente che spera, aspetta, desidera, si dà da fare, vuole, interroga […]. Questo vivere soltanto nell’autoprecedersi di una condotta di vita, esprime la sua indefinita infinitezza del dover–sempre– andare–oltre, intrecciata con la presente ed attuale infinità del mondo aperto, ovvero la sua finitudine. Ma questa finitudine non è la pura finitudine dell’animale, il quale può esaurire i suoi bisogni nel proprio mondo, mondo che è in se stesso finito. Essa è una finitudine intrecciata con l’infinitezza […]. Perciò ogni immediatezza ha luogo per lui soltanto in una mediazione, ogni purezza solo nell’intorbidimento, ogni compattezza soltanto in una frattura.
Solo se si dirige lo sguardo sull’uomo come potere e sapere egli rimane una questione aperta, e si rinuncia a una precisa determinazione di essenza al di qua o al di là della storia passata ed a venire, che lo determini materialmente o formalmente in qualche struttura che già esiste ovunque si tratti di parlare dell’uomo […]. Essere e poter essere (vale a dire essere la propria possibilità) è “più” del solo essere; e poiché, secondo un antico principio ontologico, la possibilità è superiore alla realtà, il “può” è superiore (ovvero: “più profondo”) rispetto allo “è”, e lo “è” si basa sul “può” […]. Essere–uomo è l’altro del proprio stesso essere. Soltanto la sua trasparente visibilità in un altro regno lo attesta come aperta imperscrutabilità […]. In quanto anch’egli è l’altro da se stesso, l’uomo è una cosa, un corpo, un essente tra essenti che si trova sulla terra […]. Egli dovrà sempre servirsi di questo ‘di più’ immanente alla sua prospettiva di interiorità contro l’identificarsi della propria essenza con il corpo (quale altro di se stesso) […]. L’altro di se stesso egli lo distanzia da sé e lo rende così un altro rispetto a se stesso […]. Cosa e potere collidono costituendo nel collegamento “e” quel composto che è l’uomo, che fissa nella trasparenza l’unità, mediata dal nulla, della sua essenza aperta […]. Egli possiede una “profonda” essenza segreta: il potere dell’esistenza che si manifesta da sé (l’autopotestatività, n.d.C.) […]. Egli, in quanto posizione eccentrica dell’in–sé oltre–di–sé, è l’altro di se stesso.
La maniera romantica, così come — nel vedere la ragione nell’effettività della storia — degrada la storia a teatro sul quale viene messo in scena un dramma ultraterreno dello spirito assoluto, e sul quale i popoli al momento giusto vengono per così dire chiamati sulla scena come da copione e poi scompaiono, toglie in questo modo al reale la relatività, l’indeterminato, e con ciò il potere di mutare quel che è accaduto, con le proprie energie, in qualcosa di imprevedibile. Poiché la storia ha superato una volta per tutte l’assolutismo di piani che determinano la storia, un assolutismo che contraddice il significato di un’esperienza aperta fin nelle più distanti lontananze, un popolo può allora essere necessario fra altri popoli solo nella misura in cui si rende utile e necessario. In ciò consiste il senso della sua politica, di affermare la propria tradizione con e contro le altre tradizioni, come orizzonte a partire dalla cui famigliarità esso è qualcosa di più di un semplice popolo: è l’umanità nella sua forma autentica.
Noi dobbiamo la scoperta o la pretesa di essere uomini e di doverlo essere a un determinato processo storico, all’antichità greca e alla religiosità giudaico-cristiana. Se su questo processo storico cade il sospetto che esso sia una strada sbagliata e una sventura […], il concetto di uomo conserva solo il significato di un’astrazione zoologica senza alcun senso vincolante. Il sapere circa la contestabilità di criteri o garanzie obiettivamente univoci, circa l’essere in pericolo e con ciò circa il carattere arrischiato del concetto “uomo”, deve distinguere un’Antropologia Filosofica attuale, messa alla prova di fronte al tempo, alla situazione delle scienze dell’uomo e alla situazione della filosofia, da tutti i tentativi romantici e preromantici. Dato che oggi, grazie alle esperienze della storiografia, alla critica dell’idea di sviluppo, alla vulnerabilità politica e ideologica della humanitas, siamo a conoscenza dell’arrischiatezza e della mancanza di fondamento del concetto di “uomo”, noi dobbiamo considerare l’essere uomo nella maggiore ricchezza pensabile di possibilità, nella sua indominabile polivocità e nel suo reale essere in pericolo, in modo tale che l’arrischiatezza di un simile concetto diventi comprensibile come assunzione di una particolare responsabilità davanti alla storia.
L’“uomo” (secondo la sua specie) costituisce sì la sua categoria di orientamento, ma non al fine di una mera classificazione, bensì allo scopo di garantire un’insondabilità che costituisce la serietà della responsabilità di fronte a “tutte” le possibilità in cui egli può comprendersi e quindi essere.
Se le sue vecchie garanzie metafisiche e ontologiche non valgono più in modo indiscusso, allora il genere umano e l’umanità diventano un problema di carattere morale. L’unità biologica specifica, su un piano formale, dell’uomo, con i vari caratteri dell’andatura eretta, dello sviluppo della mano, del linguaggio, della scoperta e dell’uso degli utensili ecc..., la possibilità, data con ciò, a coloro che appartengono a questa specie di comprendersi reciprocamente e dunque di produrre, nell’elemento del lavoro spontaneo, ciò che la natura ha loro esibito, tale unità specifica non basta a esortare l’uomo a essere un uomo. Egli può perdersi nel senso più stretto della parola, può uscire da un’esistenza di cui deve essere storicamente responsabile, se in questa responsabilità non riconosce più alcuna dignità. Oggi l’uomo non può più accertarsi di questa dignità a partire da una tradizione indiscussa. Così, se egli prende sul serio come solo è possibile, il dubbio nei confronti della tradizione ormai sconvolta, allora il suo essere uomo come dato di fatto e come compito è ora diventato per lui un problema.
Perciò occorre porre un limite alla pretesa illegittima, che diventa sempre più spietata, dei politici, degli economisti, dei dottori, in fatto di sterilizzazione, eugenetica, politica razziale, riproduzione selettiva degli uomini, cioè occorre porre un limite alla capacità dell’uomo di giocare con il proprio destino. L’uomo è diventato, a causa della sua capacità, una minaccia per il suo futuro, perché egli supererà la sua capacità solo attraverso una capacità maggiore, ma non sussiste alcuna garanzia del fatto che nel frattempo non vada persa l’umanità stessa. Qui si mostra lo scopo propriamente filosofico dell’Antropologia Filosofica: limitare la capacità dell’uomo per mezzo di un illimitato sconfinamento del sapere circa la sua insondabilità e insicurezza verso la sfera sorgiva del suo futuro, per fare nuovamente posto alla fede nell’uomo.
Sebbene si dica che in ogni tempo e in ogni cultura l’uomo, in fondo, resta lo stesso, mosso dalle stesse passioni, tuttavia i fatti dicono il contrario. Egli certamente non si è sempre e ovunque compreso nello stesso modo, ha cercato di istituire la sua vita secondo ideali e rappresentazioni sempre diversi di se stessi e del mondo. Se si dà ascolto all’uomo nel suo rispettivo presente, la variabilità storica inghiotte la costante nella natura umana fino a un paio di resti poco significativi. Se però lo si vede con gli occhi dell’antropologo, allora si impone la sfera costante e le cose variabili della storia si riducono a “molto rumore per nulla”.
A questa trasformazione incompiuta in una società senza autorità prestabilita, cioè all’Illuminismo portato a compimento, corrisponde il timore nei confronti di una fissazione dell’essenza umana e della sua determinazione in un senso non più rivedibile […]. La trattazione scientifica dell’uomo però, facendo di lui un oggetto, solleva altre questioni fondamentali […], questioni che toccano il rapporto tra realtà e responsabilità di sé o, se lo si vuole formulare diversamente, i limiti dell’oggettivazione dell’essere umano. In che misura, in generale, l’uomo può essere reso oggetto? […]. Ha la possibilità ovvero il diritto di essere spinta così lontano da togliere al “sé” il suo carattere di soggetto? In questo modo la conoscenza non viene a minacciare quell’elemento della dignità umana senza di cui l’uomo non riesce a cavarsela nel rapporto con i suoi simili e con se stesso: l’inavvicinabilità? Possiamo reggere alla violazione anche dell’ultimo strato protettivo che ci nasconde da noi stessi e dallo sguardo degli altri, e non ci fa perdere essa l’ultima sicurezza, l’ultima fiducia in noi stessi, senza di cui non saremmo neanche in grado di vivere? Non c’è una sorta di benefica oscurità in cui noi dobbiamo rimanere per gli altri come anche per noi stessi? “Ma non toccare il sonno del mondo” ha detto Hebbel. Non trasgrediamo la saggezza di questo sonno, se ci esponiamo senza riguardi al raggio indagatore della conoscenza? O la nostra natura essenziale si occupa essa stessa di mantenere il proprio nucleo nell’oscurità? Ci è sottratta, in questo punto, la responsabilità?
Dove il timore di fronte all’ineffabilità dell’individuo si infiacchisce, tutto è perduto.
Rinviata ai limiti dell’esperienza possibile e così sempre vincolata alla apparenze, la scienza non può oggettivare l’uomo al di là di questo limite, cioè nella sua essenza. Egli rimane per se stesso, anche con la psicologia più raffinata, un enigma insolubile. Questo è il limite che gli è tracciato, ma solo per mezzo della sua stessa ragione e solo nella misura in cui egli sa della determinazione sostanzialmente pratica di essa. L’uomo, se non si difende, può essere raggiunto e sorpassato dall’oggettivazione scientifica, che degenera in reificazione e con ciò porta con sé l’autoalienazione della propria essenza.
L’uomo […] deve comprendersi sotto ogni rispetto come una questione aperta […]. Una conoscenza che seppellisce le possibilità aperte nell’essere e per l’essere dell’uomo, nel grosso come nel piccolo di ogni singola vita, non solo è falsa, ma distrugge anche il respiro del suo oggetto: la sua dignità umana. L’homo absconditus, l’uomo insondabile, è il potere della sua libertà che continuamente si sottrae a ogni fissazione teoretica, che spezza tutte le catene, le unilateralità della scienza speciale come le unilateralità della società.
L’immagine complessiva dell’uomo, richiesta sempre di nuovo, non risulta dunque automaticamente dalla collaborazione delle singole scienze, bensì abbisogna dell’Antropologia Filosofica. Questa non è una scienza che viene ad aggiungersi ad esse, bensì è la continua riflessione critica sui loro fondamenti e sulle loro delimitazioni. Esercitando una simile riflessione sull’essenza dell’uomo, essa lo sottrae all’oggettivazione e con ciò al processo che lo rende disponibile per le astrazioni delle scienze e della società. In questo modo essa compie la sua funzione universale, volta a mantenere l’apertura, entro i limiti della dignità dell’uomo.